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Rivista Italiana di Genetica e Immunologia Pediatrica - Italian Journal of Genetic and Pediatric Immunology |
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Editoriale Giuseppe Micali
Due Pediatri e uno Spray
Questa pagina si limita a riportare una novità senza precedenti e la genialità di persone favolose. Info tratte da scienzainrete.eu VideoIntervista MatteoPorotto Matteo Porotto, un italiano a New York alle prese con lo spray antiCovid Un antivirale nasale messo a punto dai ricercatori della Columbia University ha bloccato la trasmissione della SARS-CoV-2 nei furetti. 
Lo studio, ora in preprint ma sottomesso a Science, è il primissimo passo verso una possibile applicazione sull’uomo. Il composto nello spray - un lipopeptide sviluppato da Anne Moscona e Matteo Porotto del Dipartimento di Pediatria del Center for Host-Pathogen Interaction - è stato progettato per prevenire l'ingresso del nuovo coronavirus nelle cellule ospiti... Columbia University The New York Times - Uno spray nasale che blocca l'assorbimento del virus SARS-CoV-2 ha completamente protetto i furetti su cui è stato testato. Se lo spray, che gli scienziati hanno descritto come non tossico e stabile, funzionerà negli esseri umani, potrebbe fornire un nuovo modo di combattere la pandemia. Uno spruzzo quotidiano sul naso si comporterebbe come un vaccino. 
C'era una volta... il Professor Matteo Porotto (Columbia University) un esempio di Eccellenza Scientifica di marca Italiana all'estero.
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Barbalace A 1, Crisafulli G 21UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina 2UOC Pediatria, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Test allergologici in pediatria
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Original article Barbalace A1, Crisafulli G2 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina 2UOC Pediatria, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Test allergologici in pediatria
Sempre più spesso, al giorno d’oggi, ci troviamo di fronte a bambini allergici o presunti tali. In effetti, le allergie rappresentano una delle principali preoccupazioni delle famiglie e, di riflesso, dei pediatri.
Sappiamo infatti che quasi un bambino su tre è allergico, un lattante su cinque presenta segni più o meno marcati di dermatite atopica, circa la metà dei bambini prima di andare alla scuola elementare presenterà una “bronchite con fischio”. Inoltre, qualsiasi dolore alla pancia non chiaramente spiegabile fa ipotizzare un’allergia alimentare. Infine, come non parlare della celeberrima domanda posta dalla mamma al pediatra: “dottore, perché mio figlio ha sempre il naso chiuso... a cosa è allergico?!?”.
Appare ovvio, quindi, che non ci siano in pediatria test coì frequentemente richiesti come quelli allergologici. Fra questi, senza alcun dubbio, maggiormente chiamati in causa sono gli Skin Prick Test (SPT) ed il RAST (test di radioallergoassorbimento). I primi sono effettuati su cute integra, i secondi su sangue. [1]
Assai frequentemente però, vengono commessi errori circa le reali indicazioni al ricorso alle suddette prove che, nella migliore delle ipotesi, si risolveranno con un banale buco nell’acqua ma nei casi peggiori, possono anche portare ad erronee e disastrose diagnosi di allergia con annesse “terapie” (es. diete di eliminazione o prescrizione di farmaci).
Chiariamo, innanzitutto, quali sono i test più utilizzati nella diagnostica allergologica pediatrica:
1) Skin Prick Test (SPT): effettuati applicando singole gocce delle sostanze da testare (allergeni) sulla superficie dell’avambraccio e, successivamente, punte delicatamente con un piccola lancetta. La lettura viene effettuata entro 10-15 minuti con il riscontro o meno della reazione positiva all’allergene (inalante o alimentare) visibile sotto forma di un ponfo (rigonfiamento ed arrossamento cutaneo circoscritto). Rappresentano, se effettuati correttamente, il test più veloce, economico e specifico per lo screening delle allergopatie. [2,3]
2) Prick by Prick: identici ai precendenti, tranne che per l’allergene che non è in soluzione ma “fresco”;
3) RAST: hanno in realtà pochissime indicazioni in pediatria; ad esempio nella scelta sulla tipologia di vaccino (immuno-terapia specifica con allergene o AIT) da effettuare, nella diagnosi di alcuni tipi di anafilassi (es. da alimenti indotti da esercizio fisico “Food Related Exercise Induced Anafilaxis” – FREIA; oppure da puntura di imenotteri e cioè api, vespe e calabroni) ed infine nei rarissimi casi in cui non è possibile effettuare gli SPT (grave dermatite atopica, terapia antistaminica in corso, ecc);
4) Patch Test: tramite applicazione di cerotti sulla cute, contenenti allergeni che possono scatenare reazione ritardata da contatto (es. nichel o colofonia); [4]
5) Diagnostica allergologica molecolare o “Component Resolved Diagnostic (CRD)”: effettuata su sangue, rappresenta un nuovo e valido ausilio sia per la diagnosi più accurata che per la scelta di una corretta e precisa terapia mirata al singolo paziente (es. AIT). È comunque una metodica di secondo livello rispetto alle precedenti, ed è appannaggio di centri specialistici. Essa non si limita a valutare la presenza di una sensibilizzazione verso un allergene ma dosa le sIgE per le singole molecole allergeniche di cui una fonte allergenica è costituita, avvalendosi di 2 tecniche di dosaggio: l’ISAC e l’Immuno-CAP. ISAC® è l’acronimo inglese di Immuno Solid-phase Allergen Chip. E’ un test multiplex in microarray che consente con un singolo saggio di misurare sIgE nei confronti di allergeni molecolari multipli, immobilizzati sulla piattaforma di misurazione. L’ISAC permette il dosaggio simultaneo delle sIgE verso 112 allergeni molecolari, provenienti da 51 fonti allergeniche diverse. L’ISAC è un esame semi-quantitativo e la sua risposta viene espressa in Unità ISAC Standardizzate o ISU-E e in classi ISAC (assente, basso, medio o alto) per ogni allergene molecolare in studio. Nonostante ciò, i risultati si sono dimostrati riproducibili e il sistema è dotato di elevata affidabilità diagnostica, perché ogni allergene molecolare è testato in triplette. Usando una curva di calibrazione standard, i risultati vengono riportati in un range da 0,3 a 100 ISU-E. Si valutano rilevanti valori di sIgE > 0,3 ISU-E. Sono però da valutare con prudenza valori di sIgE compresi fra 0,3 e 1 ISU-E per i quali è stato osservato un più ampio grado di variabilità comparate all’ImmunoCAP. L’ImmunoCAP® è una tecnica ad immunofluorescenza enzimatica che consente una valutazione quantitativa delle sIgE per uno specifico allergene molecolare, utilizzando piattaforme di misurazione singleplex. I risultati vengono riportati in modo quantitativo in un range da 0,1 kUA/L a 100 kUA/L. Si valutano rilevanti valori di sIgE >0,35 kUA/L. In commercio sono disponibili 90 allergeni molecolari. [5]
Da quanto detto sopra si evince che i numerosissimi test inerenti “allergie o intolleranze” (ad es. test citotossico, Alcat test, test elettrici es. vegan\test o elettroagopuntura di Voll, analisi del capello e iridologia, biorisonanza, pulse test, riflesso cardiaco auricolare ecc.) non hanno alcuna validità scientifica e non andrebbero quindi proposti né tantomeno effettuati. [6]
Il primo punto da analizzare è “quando” ricorrere ad un test allergologico. Ed il primo mito da sfatare, a tal proposito, è la presunta età minima per effettuate i comuni SPT. Infatti, non esiste un vero e proprio limite per la loro esecuzione, ad esempio potrà essere opportuno effettuarli per uovo (albume e tuorlo) e latte (frazioni proteiche) in un bambino di 4-5 mesi con dermatite atopica che dovrà inziare lo svezzamento, proprio per i suoi importanti risvolti prognostici per l’atopia (eventuale reazioni all’introduzione degli alimenti). Inoltre, è dimostrato che una eventuale positività al bianco d’uovo in questi soggetti, predispone in maniera chiara alla quasi sicura positivizzazione futura all’acaro della polvere.
E’ da sottolineare a tal proposito che molto raramente la causa della dermatite atopica è allergica e mai andrebbe indicata d’emblée una qualsiasi dieta di eliminazione (che in caso dovrebbe avere durata limitata nel tempo, 2-4 settimane, e sempre essere seguita dal tentativo di reintroduzione dell’alimento sospetto) per il lattante o per la madre che allatta, senza un serio e fondato criterio clinico. [7]
Sempre nell’età prescolare (2-5 anni), è anche possibile effettuare SPT per inalanti ma solo se fortemente indirizzati da un sospetto clinico fondato (es. wheezing ricorrenti, rinocongiuntivite allergica ecc). In questi casi, sarà sufficiente testare esclusivamente gli acari della polvere, la parietaria (prevalentemente sud Italia), le graminacee (prevalentemente nord Italia), gli epiteli di cane/gatto e l’alternaria (muffa) per identificare praticamente la quasi totalità (>95%) della patologia allergica respiratoria in questa fascia d’età. Sconsigliati, quindi, i lunghi elenchi di allergeni da testare tramite SPT e, tanto più, i richiestissimi RAST. Proprio nell’ambito del wheezing (fischio tipico delle così dette “bronchiti asmatiformi”) prescolare, sarebbe opportuno nei bambini con particolare ricorrenza, effettuare gli SPT per gli allergeni suddetti, proprio perché una eventuale positività farebbe propendere la prognosi verso un futuro asma estrinseco (allergico) e, quindi, meritevole di terapia con corticosteroide inalatorio nei periodi “critici” (autunno-inverno, con maggiore ricorrenza delle infezioni respiratorie virali). [8-9]
Discorso simile andrebbe fatto per un’altra patologia “allergica” molto frequente: l’orticaria. Questa, infatti, nella forma acuta (durata < 6 settimane) solo nel 15-20% dei casi ha una eziologia allergica (più della metà dei casi è di origine para o post-infettiva, prevalentemente virale). E se questo può sembrare discordante con le più comuni convinzioni, lo è ancora di più nelle forme croniche (durata > 6 settimane) che quasi mai hanno origine da una allergia. Saranno quindi del tutto inutili esami diagnostici allergologici (da non eseguirsi mai nelle forma acute e solo su indicazioni specialistiche nelle forme croniche) o addirittura diete di eliminazione che non hanno alcun fondamento scientifico (vedi “alimenti ricchi di istamina o istamino-liberatori”). Questo, è particolarmente vero per i RAST (spesso richiesti in batterie da 20-30 alimenti), con il quale si corre il serio rischio di “scoprire” la frequente debole e/o falsa positività legata a molteplici fattori (in primis la reattività crociata tra allergeni inalanti, specie pollini, con frutta o verdura) con il doppio risultato negativo: il povero paziente oltre a tenersi il fastidio dell’orticaria, si vedrà propinata anche una inutile quanto frustrante dieta. [10]
E’ bene anche precisare che “quasi mai” c’è indicazione ad effettuare alcun test allergologico per un “naso sempre chiuso” del bambino (specie) nell’età prescolare (seppur atopico). Infatti, la causa principale in questi casi, risiede nella conformazione anatomica dei bambini piccoli (maxillo-facciale ed ipertrofia adenotonsillare) e nelle frequenti infezioni (ricorrenza di quelle respiratorie e/o sinusiti), mentre l’allergia ad inalanti (specie pollini) conta poco o nulla.
Altre erronee indicazioni all’esecuzione di test sono: la tosse come sintomo isolato (non ha praticamente quasi mai causa allergica), la congiuntivite senza contestuale interessamento nasale o senza correlazione, ad esempio, con la stagionalità pollinica (vedi la variante “Vernal”); le infezioni respiratorie e le otiti ricorrenti nei bambini in età prescolare (le allergie respiratorie raggiungono la massima espressione clinica dopo i 10 anni).
Il secondo punto utile da approfondire è “come” effettuare queste prove e, dunque, a quali dei tanti test disponibili ricorrere. Come precedentemente accennato, sono veramente poche le patologie allergiche che non possano essere escluse (o diagnosticate) con dei semplici SPT o, ancor più raramente, dei comuni RAST. I vantaggi degli SPT sono notevoli: basso costo, lettura immediata, stessa attendibilità dei RAST e senza dover ricorrere a traumatici prelievi ematici.
Come mai allora questo frequente ricorso ai RAST a discapito degli SPT? Innanzitutto per la diffusa (ma errata!) idea che siano più “sensibili” (capaci cioè di individuare le sensibilizzazioni allergiche prima e meglio), e che lo SPT non si possa effettuare nel bambino sotto i due-tre anni. Niente di più falso, anzi: è più sensibile del RAST e per questo è particolarmente utile proprio nelle età più basse, perché riesce ad evidenziare (in anticipo), le sensibilizzazioni al loro primo apparire. [11]
Un’altra precisazione estremamente importante è che una eventuale positività non indica una malattia allergica ma solo la presenza di anticorpi (IgE) specifici verso l’allergene, la così detta “sensibilizzazione” che, in assenza di sintomatologia clinicamente evidente non indica, appunto, una malattia. Sia gli SPT che soprattutto i RAST, si caratterizzano per una elevatissima “sensibilità” (cioè se il test è negativo abbiamo oltre il 95% di possibilità che il paziente non sia sensibilizzato verso quell’allergene) ma bassa “specificità” (solo la metà, circa, dei pazienti con test positivo ha una sintomatologia o malattia concordante con tale positività). [12] Questo, in termini pratici, ci esprime l’importanza di ricorrere a test allergologici solo in presenza di fondato e reale sospetto clinico e su indicazione medica e che, soprattutto, un test positivo da solo non fa “allergia” né tantomeno malattia!
In conclusione, “perché” effettuare tali test? Considerando le principali allergie in età pediatrica (respiratoria ed alimentare), potremmo riassumere dicendo che: per quanto riguarda la patologia allergica respiratoria gli SPT andrebbero eseguiti solo nel sospetto di asma e/o rinocongiuntivite allergica. Invece, nel reale sospetto di allergia ad alimenti (rapporto causa-effetto chiaro e costante ad ogni esposizione all’alimento, tempo di insorgenza della reazione e sintomatologia compatibile, ecc.) si potranno effettuare inizialmente i comuni SPT ed eventualmente i Prick by Prick (alimento fresco). Solo in un secondo momento e se necessario, si potrà ricorrere all’ausilio dei RAST o della diagnostica allergologica molecolare, ad esempio per una eventuale programmazione ed esecuzione di TPO (Test di provocazione orale o “challenge”, imprescindibile per la diagnosi di allergia alimentare) o per avviare una desensibilizzazione orale con alimento (immunoterapia specifica).
Bibliografia 1) Zuberbier T et al. The EAACI/GA²LEN/EDF/WAO guideline for the definition, classification, diagnosis and management of urticaria. Allergy. 2018 Jul;73(7):1393-1414.
2) Arasi S, Pajno GB, Calamelli E, Kantar A. Le prove allergologiche: Skin Prick Test. Rivista di Immunologia e Allergologia Pediatrica; 2015 (1); 36-37.
3) Ansotegui I, Melioli G, Canonica GW, Caraballo L et al. IgE allergy diagnostics and other relevant tests in allergy, a World Allergy Organization position paper. World Allergy Organ J. 2020 Feb 25;13(2):100080.
4) Lombardo F, Passanisi S, Caminiti L, Barbalace A, Marino A et al. High Prevalence of Skin Reactions Among Pediatric Patients with Type 1 Diabetes Using New Technologies: The Alarming Role of Colophonium. Diabetes Technol Ther. 2020 Jan;22(1):53-56.
5) Soares-Weiser K et al. The diagnosis of food allergy: a systematic review and meta-analysis. Allergy. 2014 Jan;69(1):76-86.
6) Hoffmann TM, Şahin A, Aggelidis X, Arasi S, Barbalace A et al. "Whole" vs. "fragmented" approach to EAACI pollen season definitions: A multicenter study in six Southern European cities. Allergy. 2020 Jul;75(7):1659-1671.
7) Sicherer SH, Sampson HA. Food allergy: A review and update on epidemiology, pathogenesis, diagnosis, prevention, and management. J Allergy Clin Immunol. 2018 Jan;141(1):41-58.
8) Kramer S, Kakuma R. Maternal dietary antigen avoidance during pregnancy or lactation, or both, for preventing or treating atopic disease in the child. Cochrane Database Syst Rev. 2012 Sep 12;2012(9):CD000133.
9) Werfel T, Asero R, Ballmer-Weber BK, Beyer K, Enrique E et al. Position paper of the EAACI: food allergy due to immunological cross-reactions with common inhalant allergens. Allergy. 2015 Sep;70(9):1079-90.
10) Sicherer SH, Wood RA. American Academy of Pediatrics Section On Allergy And Immunology. Allergy testing in childhood: using allergen-specific IgE tests. Pediatrics. 2012 Jan;129(1):193-7.
11) Del Giacco SR, Bakirtas A, Bel E, Custovic A, Diamant Z, Hamelmann E. Allergy in severe asthma Allergy. 2017 Feb;72(2):207-220.
12) Arasi S, Caminiti L, Crisafulli G, Panasiti I, Barbalace A, Passalacqua G, Pajno GB. The safety of oral immunotherapy for food allergy during maintenance phase: Effect of counselling on adverse reactions. World Allergy Organ J. 2019 Jan 26;12(1):100010.
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Basile P 1, Sallemi A 1, Gramaglia S 1, Costa S 2, Romano C 21Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina 2UO Gastroenterologia Pediatrica con Fibrosi Cistica, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Ingestione di caustici Management in Pronto Soccorso
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Original article Basile P1, Sallemi A1, Gramaglia S1, Costa S2, Romano C2 1Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina 2UO Gastroenterologia Pediatrica con Fibrosi Cistica, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Ingestione di caustici Management in Pronto Soccorso
L’ingestione di sostanze caustiche è un problema rilevante in età pediatrica. Negli ultimi decenni, tuttavia, l’approccio nei confronti di questi pazienti è sensibilmente migliorato grazie all’impiego di nuovi protocolli procedurali e alla aumentata disponibilità dell’endoscopia digestiva.
Gli agenti caustici vengono distinti in sostanze acide forti (pH < 2) e sostanze alcaline forti (pH > 11). I prodotti coinvolti in ambito pediatrico sono generalmente impiegati per la pulizia domestica (es. candeggina, detergenti per forno, prodotti per l’igiene della toilette, anticalcare, detergenti per stoviglie, etc.) [1,2]. Particolare attenzione deve essere rivolta alle capsule detergenti: i loro colori e l’aspetto piacevole delle confezioni possono infatti attrarre maggiormente l’attenzione dei bambini [3], tuttavia negli ultimi anni sono migliorati significativamente i sistemi di sicurezza di imballaggio ed il prodotto concentrato delle “pods” non si associa generalmente a lesioni significative del tratto gastrointestinale superiore [4,5].
Epidemiologia: i dati raccolti nel 2005 dall’American Association of Poison Control Centers hanno evidenziato, che il 3,7% dei pazienti esposti a caustici di uso domestico hanno presentato complicazioni di grado moderato o severo, mentre solo lo 0,02% è deceduto [16]. Si osservano due range d’età principalmente coinvolti [6]. La maggior parte dei casi, per lo più accidentali e caratterizzati pertanto da scarse quantità di caustici ingeriti (prognosi migliore), si verifica in bambini di età inferiore ai 4 anni (soprattutto fra i 12 e i 48 mesi di vita). Il secondo picco di prevalenza corrisponde all’età adolescenziale, con maggiore predominanza dei gesti intenzionali eseguiti in presenza di problemi psicologici o malattie psichiatriche. Pertanto questi casi, essendo associati a quantità maggiori di prodotto caustico assunto, sono caratterizzati da prognosi peggiore.
Fisiopatologia: la necrosi indotta dalle sostanze acide è di tipo coagulativo e, poiché si associa alla formazione di escare e/o coaguli, ciò consente di limitare la profondità delle lesioni con un minor rischio di perforazione. Le sostanze alcaline determinano invece una necrosi colliquativa che, non determinando la formazione di escare o coaguli, causa lesioni più profonde con rischio di perforazione sensibilmente aumentato [7]. I prodotti solidi o granulari aderiscono tenacemente alla mucosa soprattutto a livello orofaringeo e nell’esofago prossimale. Le preparazioni acide, meno viscose rispetto a quelle alcaline (quest’ultime esplicano la loro azione maggiormente a livello esofageo), transitano rapidamente verso lo stomaco e, qualora vi sia pilorospasmo associato, agiscono soprattutto a livello antrale [8].
Gestione del paziente in Pronto Soccorso Il paziente, giunto al Pronto Soccorso e sottoposto ad opportuno triage, viene valutato dal medico responsabile che provvederà alla eventuale stabilizzazione emodinamica, al monitoraggio delle funzioni vitali (A,B,C,D) e dei parametri vitali, al reperimento di accesso venoso per eventuale infusione di liquidi e/o trasfusioni.
Dopo aver eseguito la stabilizzazione del paziente, è indispensabile inquadrare correttamente l’anamnesi patologica prossima al fine di poter stabilire l’iter diagnostico – terapeutico più adeguato e la prognosi.
È necessario chiarire:
•la natura della sostanza coinvolta (prestare attenzione all’eventuale contenitore del caustico portato dai genitori; qualora la sostanza non sia nota, misurare il pH con cartina al tornasole con range 0-14);
•l’intenzionalità o accidentalità dell’evento (da ciò dipende la quantità di prodotto ingerito);
•dose, concentrazione e momento in cui il prodotto è stato assunto;
•gli eventuali coingesti o prodotti somministrati dopo l’ingestione (es. carbone attivo, bevande liquide, etc.);
•le abilità psicomotorie del paziente tali da permettere l’accesso ad un determinato prodotto (es.: la capacità di svitare il tappo di una bottiglia compare attorno ai 2 anni di vita. Se incidenti di questo tipo avvengono ad una età inferiore, si deve considerare l’ipotesi di violenza su minore).
L’esame obiettivo è fondamentale per valutare la presenza di sintomi e/o segni clinici la cui presenza isolata o combinata è espressione della gravità del caso:
•Lesioni e/o edema della cute, degli occhi e della cavità orofaringea (la loro assenza, tuttavia, non deve escludere lesioni esofago-gastriche)[9];
•Scialorrea, disfagia, odinofagia, dolore retrosternale (maggiore probabilità di associazione con lesioni esofagee);
•Dolore dorsale (compatibile per perforazione esofagea);
•Vomito, epigastralgia, ematemesi (probabili lesioni gastriche);
•Addome disteso con resistenza alla palpazione (perforazione)
•Stridore, afonia, raucedine, dispnea (lesioni delle vie respiratorie)
Sulla base del quadro clinico il medico di PS decide se contattare i componenti del Team multidisciplinare (gastroenterologo/chirurgo endoscopista, anestesista, radiologo, chirurgo, rianimatore, otorinolaringoiatra, centro anti-veleni per la valutazione della tossicità sistemica del caustico ingerito).
Gli esami di laboratorio da richiedere sono: emocromo con formula leucocitaria e piastrine, emogasanalisi, proteina C – reattiva, funzionalità epato-renale e pancreatica, elettrolitemia, assetto coagulativo, beta HCG (per le giovani donne fertili) ed emogruppo. La presenza di leucocitosi, trombocitopenia, elevati livelli di PCR, grave acidosi metabolica (pH basso con aumentata concentrazione dei lattati) ed alterazione dei parametri di funzionalità d’organo e degli elettroliti (iperkaliemia) possono essere indici di necrosi transmurale e di un outcome più sfavorevole [10].
Gestione pre-endoscopica del paziente Valutare attentamente l’esecuzione o meno dell’esofagogastroduodenoscopia (EGDS) in ambito pediatrico è di fondamentale importanza, essendo un esame strumentale importante attraverso cui si ottengono preziose informazioni relative allo stato della mucosa gastroesofagea, ma invasivo e pertanto non scevro da rischi ed effetti collaterali. Per quanto concerne la tempistica, si raccomanda l’esecuzione il prima possibile e comunque entro e non oltre le 24 h [23]. L’EGDS precoce inoltre consente di effettuare la decontaminazione in caso di assunzione di caustici ad assorbimento sistemico e può essere eseguita anche a distanza di ore dall’ingestione, poiché alcuni caustici, causando pilorospasmo, determinano la persistenza della sostanza nello stomaco anche a distanza di tempo.
Se sono presenti stato generale compromesso e sintomi e/o segni clinici suggestivi di perforazione (mediastinite/peritonite) è necessario richiedere immediatamente consulenza radiologica per esecuzione di RX (eventuale presenza di pneumoperitoneo/pneumomediastino) e TC collo-torace-addome con mezzo di contrasto. Non eseguire EGDS in prima istanza in questi casi [23]. Richiedere altresì consulenza chirurgica urgente e, qualora venga confermato il quadro clinico, sottoporre il paziente a cure intensive [11]. Laddove ci siano primi sintomi e/o segni clinici di interessamento delle vie respiratorie (stridore, afonia, raucedine, dispnea), si raccomanda la protezione attraverso l’intubazione. Ulteriori controindicazioni per l’esecuzione dell’EGDS sono edema dell’ipofaringe, necrosi dell’epiglottide ed insorgenza di ARDS [12].
Qualora le condizioni generali non siano critiche, eseguire la valutazione alla luce dei dati anamnestici relativi all’accidentalità o intenzionalità ed al tipo di sostanza ingerita (vedi figura 1) [13,23].
Se il paziente ha assunto un prodotto acido, indipendentemente dall’intenzionalità del gesto, viene sottoposto ad endoscopia digestiva [13];
Se il paziente ha assunto un prodotto alcalino, valutare la volontà del gesto compiuto [13]:
- Se intenzionale, sottoporre il paziente ad endoscopia digestiva;
- Se accidentale, valutare iter diagnostico-terapeutico ed eseguire EGDS attraverso la presenza o meno di sintomi e/o segni clinici [14]. Qualora il paziente sia asintomatico, sarà sufficiente un’osservazione breve di 4-6 h con successiva dimissione. Laddove sia presente uno solo dei seguenti sintomi/ segni clinici, e cioè vomito, scialorrea o incapacità di assumere cibi per os, è indicata un’osservazione breve di 24-48 h con digiuno assoluto nel corso della prima nottata; tentare successivamente somministrazione di liquidi chiari e a seguire di cibi solidi. Se gli alimenti vengono tollerati, si può procedere con la dimissione, altrimenti il paziente si deve sottoporre ad endoscopia digestiva. Se sono presenti 2 segni clinici contemporaneamente (vomito e scialorrea) oppure soltanto stridor, il paziente deve essere sottoposto a endoscopia digestiva.
La classificazione più comunemente utilizzata per la descrizione dello stato della mucosa gastroesofagea e delle eventuali lesioni presenti è quella di Zargar [15,23] (vedi tabella 1). A seconda del grado, varierà L’iter procedurale del paziente:
• Gradi 0,1,2A: pazienti con lesioni lievi; quadro clinico modesto o silente, rischio basso: indicata osservazione breve per pochi giorni, con ripresa dell’alimentazione orale e successiva dimissione;
• Grado 2B: pazienti esposti ad un rischio maggiore di complicanze, basso rischio di perforazione. Indicato il ricovero in ambiente medico. Opportuno eseguire nel tempo un follow up endoscopico;
• Grado 3A: rischio alto di complicanze; indicato il ricovero in ambiente semintensivo o intensivo. Possibile esecuzione di chirurgia esplorativa (laparoscopia, mediastinoscopia, laparotomia);
• Grado 3B: rischio altissimo di perforazione, avviare tempestivamente trattamento chirurgico; ricovero in terapia intensiva
 Terapia medica (vedi schema 1)
Lo scopo del trattamento è quello di migliorare il decorso clinico ed evitare l’insorgenza di complicanze (stenosi):
- Gradi 0,1: rischio di stenosi basso, non evidenza scientifica di miglioramento clinico attraverso impiego di glucocorticoidi, inibitori di pompa protonica (IPP), antibioticoterapia. L’alimentazione può essere riavviata dopo l’esecuzione dell’EGDS [23];
- Grado 2A: l’impiego di IPP (0.7 – 3.5 mg/kg/die) e l’avvio di una dieta semiliquida per 72 h riduce il rischio di complicazioni. Può altresì essere valutato l’avvio di terapia antibiotica con ampicillina (50 – 100 mg/kg/die per 10 giorni) [23];
- Grado 2B: alto rischio di stenosi, basso rischio di perforazione. Utile l’impiego di glucocorticoidi ad alte dosi (desamentasone con migliore efficacia rispetto a prednisolone e a metilprednisolone) in tempi brevi per evitare gli effetti collaterali, in associazione con IPP e.v. (0.7 - 3.5 mg/kg/die) e antibioticoterapia (ampicillina: 50 – 100 mg/kg/die per 10 giorni);
- Gradi 3A-3B: alto rischio di stenosi, alto rischio di perforazione (3B>3A). Non evidenza scientifica di miglioramento con impiego di glucocorticoidi, è tuttavia ragionevole considerare l’uso di desametasone e.v. anche per lesioni superiori al grado 2B [23];
Promettente sembra essere l’utilizzo del sucralfato e della mitomicina C, ma sono tuttora in corso diversi studi per testarne l’efficacia e la sicurezza [21, 22].
Si raccomanda impiego di terapia analgesica e.v. se dolore orofaringeo e/o toracico; qualora fosse necessario, utilizzare Midazolam e.v. 0.1 mg/kg oppure intranasale (0.4 – 0.8 mg/kg).
Evitare i seguenti prodotti/manovre mediche:
Diluenti/emetici: l’uso di diluenti (acqua, latte) e di prodotti emetici (ipecacuana) sono controindicati poiché possono indurre vomito, con conseguente riesposizione della mucosa esofagea all’agente caustico e aumento significativo del rischio di lesioni delle vie respiratorie [16]. Tuttavia nei pazienti che sono in grado di deglutire, parlare e respirare senza difficoltà, l’uso di diluenti in piccole quantità, se effettuato immediatamente dopo l’ingestione, può contribuire ad irrigare e a rimuovere le sostanze ingerite aderenti a livello orofaringeo o dell’esofago, soprattutto se il prodotto caustico è in polvere [13].
Agenti tampone: la somministrazione di sostanze neutralizzanti (ad esempio acidi deboli nell’ingestione di caustici, bicarbonato nell’ingestione di acidi) è controindicata, poiché la produzione di reazioni esotermiche può determinare un peggioramento delle lesioni gastrointestinali, ulteriormente aggravate dalla produzione di CO2 che può causare distensione dei visceri [17];
Carbone attivo: il suo impiego, oltre ad essere inefficace per lo scarso assorbimento, può inoltre oscurare la presenza di lesioni gastroesofagee visualizzabili attraverso l’endoscopia [13,18];
Gastrolusi: la lavanda gastrica è controindicata poichè, inducendo il vomito, determina la riesposizione della mucosa orofaringea ed esofagea all’agente corrosivo, rischiando di causare ulteriori lesioni [19]
Aspirazione con sondino nasogastrico: L’inserimento di un sondino nasogastrico “alla cieca” è controindicato nei pazienti con ingestione di sostanze alcaline, poiché è stato dimostrato che le lesioni gastroesofagee si manifestano nell’arco di pochi minuti [20] ed è particolarmente alto il rischio di traumi, sanguinamento o perforazione. L’inserimento può invece essere eseguito sotto visualizzazione endoscopica per consentire di agire come stent meccanico, garantendo la pervietà luminale, e per permettere la nutrizione enterale (se stomaco e duodeno sono integri) [13].
Follow up • Pazienti asintomatici o con lesioni minime (grado 1oppure 2A) non richiedono alcuno specifico follow up [13];
• Pazienti con lesioni di grado 2B o lesioni più severe richiedono valutazioni periodiche per il possibile sviluppo di stenosi (che generalmente si verifica in un periodo di tempo compreso fra 21 giorni – 2 mesi);
• Pazienti con lesioni di grado 2B o 3 devono eseguire valutazioni annuali per il rischio aumentato di trasformazione dell’epitelio esofageo in adenocarcinoma o carcinoma a cellule squamose.
 


Usa terapia analgesica e.v. se dolore orofaringeo e/o toracico. In caso utilizzare Midazolam e.v. 0.1 mg/kg o intranasale 0.4 – 0.8 mg/kg * Se presenza isolata o aggiuntiva di sintomi respiratori (disfonia, dispnea) -> consulenza ORL e rianimatore: laringoscopia e valutazione della necessità di assistenza respiratoria
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Gasbarro A 1, Giannitto N 1, Corso M 1, Patroniti S 1, Rizzuti L 1, Rizzo L 21Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina 2UO Ginecologia ed Ostetricia, Ospedale Civile di Lipari, Messina
Patologia Ginecologica in Pronto Soccorso
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Original article Gasbarro A1, Giannitto N1, Corso M1, Patroniti S1, Rizzuti L1, Rizzo L2 1Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina 2UO Ginecologia ed Ostetricia, Ospedale Civile di Lipari, Messina
Patologia Ginecologica in Pronto Soccorso
Introduzione In pronto soccorso pediatrico, la patologia ginecologica è quasi del tutto rappresentata dalla torsione degli annessi uterini. E’ un’entità nosologica piuttosto rara in età pediatrica, con un’incidenza di 4.9 ogni 100.000 soggetti di età compresa tra 0 e 20 anni1-2. La torsione degli annessi uterini è un’emergenza chirurgica definita come la rotazione parziale o totale dell’ovaio, della tuba uterina o di entrambi intorno al proprio asse vascolare con conseguente compromissione del flusso sanguigno a loro afferente. Generalmente coinvolge entrambe le strutture, ma tale fenomeno può interessare a volte il solo ovaio e più raramente la sola tuba3-4. Richiede un immediato riconoscimento ed intervento al fine di preservare il potenziale riproduttivo della paziente. Ad oggi il trattamento conservativo è considerato la scelta migliore da attuare in caso di torsione per il mantenimento della funzione ovarica5. La torsione dell’ovaio destro è più frequente rispetto al sinistro, con un rapporto compreso tra 3:2 e 5:1; questo perché il legamento utero-ovarico di destra è fisiologicamente più lungo del sinistro e perché, a sinistra, la presenza del colon sigma limita la mobilità ovarica, svolgendo un ruolo protettivo nei confronti di questo evento. La torsione ovarica può avvenire su un ovaio sano oppure essere favorita dalla presenza di masse ovariche, come cisti e neoplasie che fungono da fulcro per la torsione6-7.
La torsione ovarica in età pediatrica presenta due picchi di maggior incidenza: uno nel primo anno di vita e l’altro durante il periodo adolescenziale. Questa distribuzione bimodale è sovrapponibile a quella relativa alla frequenza delle lesioni funzionali ovariche (soprattutto cisti follicolari e del corpo luteo), che in età pediatrica costituiscono il 45% delle lesioni ovariche. Il picco in età neonatale è causato dalla stimolazione ormonale materna (spesso queste lesioni si diagnosticano già in fase prenatale), mentre il picco in età adolescenziale è dovuto ad un’ ovulazione disfunzionale caratteristica del periodo peri-puberale8. Nel periodo adolescenziale, inoltre, si verifica un importante aumento nelle dimensioni ovariche che favorisce il fenomeno della torsione.
Fisiopatologia Sebbene la torsione dell’ovaio e della tuba uterina possano realizzarsi in forma isolata, nella maggior parte dei casi vengono interessate entrambe le strutture. L’ovaio è supportato dal legamento uterovarico, dal mesovario e dal legamento sospensore che contiene il fascio vascolo-nervoso dell’organo: nonostante la presenza dei suddetti legamenti però l’ovaio non è fissato nella cavità pelvica. Le tube uterine sono ancorate al mesosalpinge. Gli annessi uterini possono ruotare intorno al legamento sospensore e al legamento uterovarico determinando la compressione dei vasi ovarici che decorrono nel loro contesto. Le prime componenti vascolari ad essere interessate da questo evento sono quella venosa e quella linfatica; il flusso arterioso viene compromesso successivamente. Se la torsione non viene trattata tempestivamente, l’ovaio diviene ischemico e successivamente necrotico con l’insorgenza di complicanze quali tromboflebiti (conseguente al rilascio locale di un importante quantitativo di citochine), emorragie ed infezioni, che possono complicarsi in peritonite9-11. Altre complicanze comprendono lo sviluppo di calcificazioni e di auto-amputazione dell’ovaio12.
Presentazione clinica Il sintomo caratteristico di presentazione della torsione ovarica è il dolore addominale acuto presente nella quasi totalità dei casi13,14. Si localizza tipicamente in fossa iliaca destra o sinistra, in relazione all’ovaio interessato. Si può irradiare posteriormente, lateralmente e alla coscia e può persistere per ore. Il dolore può comparire in modo brusco ed improvviso, ed essere di intensità tale da richiedere l’intervento medico in poche ore, oppure essere più vago e lieve all’inizio per aumentare gradualmente con il passare del tempo. Altri sintomi associati possono essere la nausea ed il vomito che compaiono con frequenza variabile dal 59% al 85% in relazione alle varie casistiche. La febbre costituisce un altro sintomo di comune riscontro, si ritrova nel 18% - 22% dei casi6,15,16. Diarrea, costipazione, disturbi urinari, anoressia si possono riscontrare anche se con minor frequenza. Il sintomo dolore, se nella maggioranza dei casi si manifesta e persiste nel tempo, nel 4% - 50% dei pazienti può presentarsi in maniera ciclica e periodica16,17. Queste bambine infatti presentano una storia (anche di alcuni mesi) di dolore addominale ricorrente caratterizzato da vari episodi che si risolvono spontaneamente. In questi casi l’ovaio va incontro a torsione e successiva detorsione che avviene in modo spontaneo. All’esame obiettivo potremo trovare un addome trattabile, dolorabilità in sede annessiale e possibile presenza di una massa palpabile al livello pelvico. La presentazione clinica più o meno acuta, non sempre però riflette la compromissione vascolare dell’organo. La sintomatologia e la presentazione clinica sopra descritte sono da considerarsi aspecifiche, in quanto numerose e più frequenti patologie addomino-pelviche di interesse pediatrico si possono presentare col medesimo quadro clinico. Solo nella metà dei casi di torsione ovarica questa viene considerata come prima ipotesi diagnostica18,19. In particolare l’appendicite acuta è la patologia con cui più frequentemente viene confusa la torsione ovarica. Queste due patologie infatti, oltre ad avere in comune il quadro clinico hanno entrambe il picco di presentazione compreso tra gli 8 -16 anni.
Diagnosi La diagnosi di certezza di una torsione ovarica può essere in molti casi raggiunta solo durante la laparoscopia/laparotomia.4,15 Gli esami ematochimici, insieme alla presentazione clinica e alle tecniche di imaging permettono di formulare l’ipotesi diagnostica e di escludere altre patologie che rientrano in diagnosi differenziale. Gli esami ematochimici da eseguire in urgenza nel sospetto di torsione ovarica sono l’emocromo, gli indici di flogosi (PCR, VES, fibrinogeno) e i marcatori tumorali sierici. La leucocitosi neutrofila è presente in oltre la metà dei casi ed alcuni studi hanno dimostrato una relazione direttamente proporzionale tra il livello di leucocitosi e il grado di compromissione ischemica dell’ovaio.13,17
Dopo l’esecuzione degli esami ematochimici, l’ecografia tran-addominale rappresenta la prima indagine diagnostica da eseguire in urgenza, perché è veloce, economica, scevra da radiazioni ionizzanti e, soprattutto in presenza di vescica distesa, permette una buona visualizzazione degli organi parenchimatosi pelvici. In età pediatrica è da considerarsi il gold standard a causa della più rara possibilità di eseguire un eco trans-vaginale.13,21 L’ecografia può consentire di valutare se la torsione è insorta su un ovaio sano, oppure se questa è una complicanza di una lesione ovarica preesistente. In tal caso l’eco-struttura è indicativa del tipo di massa22.
Il segno ecografico che si riscontra più frequentemente in caso di torsione su un ovaio non patologico (senza lesioni preesistenti) è l’aumento volumetrico dell’organo a causa dell’edema e della congestione venosa.15,21 L’aumento di volume può essere così importante da far assumere all’ovaio colpito dimensioni anche 12 volte maggiori rispetto al controlaterale. Un’altra caratteristica ecografica, presente nel 13% - 45% dei casi, è l’evidenza di piccole cisti distribuite alla periferia dell’ovaio. Esse sono causate dall’incremento del contenuto fluido nei follicoli periferici, conseguenza della stasi linfatica e venosa5,21,22. Con l’ecografia è possibile valutare la presenza di eventuali raccolte liquide in addome o nel cavo del Douglas; questo è un segno tardivo, frequentemente associato a tessuto ovarico emorragico ed a compromissione ischemica grave.
In caso di torsione su ovaio patologico, la lesione potrà apparire cistica, complessa o solida. Questo è un momento importante nella diagnosi perché andrà ad influire sul tipo di trattamento chirurgico. L’osservazione di una lesione complessa o solida è infatti associata ad un rischio maggiore di malignità.8,23-25
Il ruolo dell’eco-color-doppler per la diagnosi di torsione ovarica è controverso. Se infatti l’assenza di flusso ematico in direzione dell’ovaio depone a favore della torsione, la presenza del flusso non la esclude. L’eco color-doppler permette di visualizzare sia il flusso venoso che arterioso. La mancanza del flusso venoso è sicuramente più frequente rispetto a quello arterioso. Tuttavia, in assenza di flusso sia arterioso che venoso la probabilità di torsione è alta.21,26
Ulteriori indagini diagnostiche che possono essere utili durante il work-up diagnostico sono RX diretta dell’addome, la TC (tomografia computerizzata) e la RM (risonanza magnetica). L’RX, in particolare, è un’indagine di basso costo, veloce da eseguire e può permettere l’esclusione di altre patologie con quadro clinico simile.27 La TC e la RM sono invece necessarie per meglio caratterizzare masse ovariche, associate alla torsione, che all’eco hanno mostrato un pattern complesso o solido. Consentono infatti di visualizzare con più precisione i limiti, le dimensioni e il rapporto della lesione con i tessuti circostanti. I reperti più comuni alla RM per la torsione ovarica sono la deviazione dell’utero verso il lato interessato, presenza di ascite, e obliterazione dello spazio periuterino. La RM per la sua sensibilità nel dimostrare i vari stadi della degradazione dell’emoglobina consente inoltre di visualizzare foci emorragici eventualmente presenti. La TC rispetto alla RM espone la paziente ad alte dosi di radiazioni, ma ha un tempo di esecuzione molto minore che la rende preferibile nei casi più urgenti28.
Trattamento La torsione ovarica richiede un trattamento chirurgico d'urgenza. Rendere più breve possibile l'intervallo compreso tra l'inizio dei sintomi e la terapia chirurgica è fondamentale per evitare una severa compromissione ischemica dell'ovaio, complicanze cliniche gravi ed anche conseguenze negative sul piano della fertilità.
La laparoscopia eseguita in tempi rapidi è il gold standard perché è contemporaneamente diagnostica e terapeutica6,14,29,30. Inoltre è ben codificata ed affidabile, associata ad un minor sanguinamento, minor dolore postoperatorio, una minore incidenza di aderenze e un più rapido ritorno alle attività quotidiane31-33.
La laparotomia, invece, viene utilizzata solo per la chirurgia di masse ad alto rischio di malignità, con la finalità di diminuire il rischio di rottura intraoperatoria della formazione che ha causato la torsione e spreading34,35.
L'approccio può essere conservativo, che prevede la semplice detorsione manuale dell'ovaio sul suo peduncolo, oppure radicale che coincide con l'ovariectomia.
La terapia tradizionale per la torsione ovarica, fino a pochi anni fa, era la rimozione dell'ovaio e nei casi in cui fosse coinvolta anche la tuba l'intervento effettuato era l'annessiectomia monolaterale (asportazione della tuba e ovaio omolaterale).
Ad oggi si è visto che, particolarmente in età pediatrica, l'approccio deve essere più conservativo possibile per evitare asportazioni ovariche non necessarie e dannose per la fertilità futura della bambina.
Generalmente l'approccio chirurgico viene stabilito sulla base dell'aspetto macroscopico dell'ovaio al momento del tempo esplorativo della laparoscopia e delle sue modifiche visibili del tessuto interessato a seguito della detorsione. L'attesa dopo la detorsione e segnali visibili della riperfusione del tessuto, tuttavia, non sono dirimenti36-38. E' stato dimostrato che l'ovaio black-bluish, che non cambia il suo colore durante la manovra di detorsione, non sia necessariamente necrotico e possa verificarsi un suo recupero funzionale4,38,39. La maggior parte delle ovaie , al follow up eco-color-Doppler, mostra un normale sviluppo follicolare dopo sole sei settimane dall'intervento40. A questo proposito sarebbe utile effettuare una biopsia intraoperatoria, in casi selezionati, per accertarsi che la circolazione sanguigna del tessuto ovarico sia preservata e per escludere la presenza di necrosi, che richiederebbe a quel punto, l'approccio radicale38,41.
La elevata possibilità di recupero dell'ovaio, anche a distanza di tempo, rende ragione di come l'approccio conservativo sia sicuramente preferibile in quanto non rappresenta una condizione di irreversibile compromissione della capacità riproduttiva e ormonale della donna.
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Patroniti S 1, Romeo M 1, Corso M 1, Gasbarro A 1, Barbalace A 2, Salvo V 3, Cuppari C 21Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina 2UOC di Pronto Soccorso con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina 3UOC di Patologia e TIN, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Ossigenoterapia ad alti flussi (HFNC)
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Original article Patroniti S1, Romeo M1, Corso M1, Gasbarro A1, Barbalace A2, Salvo V3, Cuppari C2 1Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina 2UOC di Pronto Soccorso con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina 3UOC di Patologia e TIN, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Ossigenoterapia ad alti flussi (HFNC)
Per ossigenoterapia ad alti flussi si intende una tecnica di supporto respiratorio non invasivo (utilizzo di naso-cannule come interfaccia) a circuito aperto in grado di erogare una miscela di aria e ossigeno, riscaldata e umidificata, ad un flusso maggiore rispetto al picco inspiratorio intrinseco del paziente. (vedi Figura 1)
 Figura 1 Con l’HFNC il flusso somministrato dall’apparecchio supera il picco inspiratorio del paziente per cui non viene inalata ulteriore aria dall’esterno come invece si verifica con i sistemi a basso flusso (area tratteggiata).[11]
Quando utilizzarlo?
E’ indicato nei casi di ipossiemia con distress respiratorio e lieve ipercapnia. [1-5] Nei pazienti pediatrici si fa ricorso all’utilizzo degli alti flussi in varie patologie quali: bronchiolite, asma, insufficienza respiratoria e/o distress respiratorio di grado lieve, ecc. [6-9]
Vantaggi dell’HFNC (vedi Figura 2):
- Wash-out dello spazio morto naso-faringeo: tale spazio comprende le vie aeree che si estendono dal naso ai bronchioli terminali. Nella fase espiratoria queste si riempiono dell’aria proveniente dagli alveoli, povera di O2 e ricca di CO2, che verrà re-inspirata durante l’atto respiratorio successivo. Appare chiaro che, se lo spazio morto potesse essere ridotto, una quota maggiore di gas fresco (povero di CO2 e ricco di O2) arriverebbe agli alveoli con miglioramento degli scambi gassosi; [10]
- Riduzione delle resistenze respiratorie: possibile grazie alla somministrazione di un flusso di gas che supera il picco inspiratorio del paziente. Ne deriva una riduzione del lavoro respiratorio necessario; [11]
- Miglioramento della compliance polmonare e riduzione del dispendio metabolico necessario al condizionamento (umidificazione e riscaldamento) dei gas respiratori; [12]
- Miglior reclutamento polmonare grazie all’azione di una pressione positiva, utile nel prevenire il collasso delle vie aeree superiori nelle malattie ostruttive, favorendo anche un certo grado di distensione alveolare e quindi miglior rapporto ventilazione/perfusione nelle malattie restrittive; [11,13]
- Riduzione del danno infiammatorio e dello stimolo bronco-costrittivo, oltre che ottimizzazione della clearance muco-ciliare rispetto all’utilizzo di O2 freddo e secco.

Figura 2 Meccanismo d’azione dell’HFNC in relazione all’entità del flusso e al condizionamento dei gas. [11]

Figura 3 Rappresentazione di un sistema HFNC: il flussimetro (per impostare il valore del flusso), l’umidificatore, il miscelatore aria/ossigeno (per impostare la FiO2) e il circuito che termina con le naso-cannule da collegare al bambino. [11]
Calcolare il flusso da erogare: 1-2 L/kg/min per i primi 10 kg di peso max (60 L/min) - Utilizzare naso-cannule che non occludano più del 50% delle narici del paziente.
- Impostare la FiO2 (frazione di ossigeno inspirata) con una variabilità che può andare dal 21% fino al 60%, per mantenere una saturazione di ossigeno compresa tra il 92% e il 95%.
- Per fare in modo che il paziente si adatti al flusso, iniziare con 1 L/kg/min sino a raggiungere il flusso desiderato, o fino al raggiungimento di SatO2 adeguata e/o riduzione del lavoro respiratorio (max 2 L/Kg/min).
- Erogare una miscela di gas riscaldati ed umidificati (a 37°C la miscela presenta il 100% di umidità relativa).
Criteri di esclusione per l’utilizzo dell’HNFC - Ritenzione di CO2;
- Acidosi severa (respiratoria e/o metabolica);
- Apnee ricorrenti/ persistenti;
- Necessità di FiO2 > 60% per mantenere adeguate saturazione di O2. [14]
Assistenza al paziente - Assicurare una posizione confortevole;
- Monitoraggio continuo dei parametri vitali;
- Emogasanalisi (EGA) arterioso all’inizio dell’HFNC e quindi ogni 6 h;
- Dopo stabilizzazione clinica e respiratoria, rivalutazione ogni 2 h e registrazione dei parametri di FC, FR, SatO2;
- Igiene periodica delle narici, per garantire il corretto funzionamento dell’HFNC. Se necessario ripetere la pulizia ogni 2-3/h;
- Controllare che il circuito funzioni in modo corretto e che quindi non ci sia né eccessivo riscaldamento dell’aria né raffreddamento. [11]
Complicanze - Pneumotorace;
- Pneumomediastino;
- Enfisema sottocutaneo da Air-Leak;
- Insufflazione gastrica;
- Irritazione degli occhi e del filtro nasale. [11,14,15]
Parametri indicativo per lo svezzamento dall’HFNC - Miglioramento con normalizzazione SatO2;
- Miglioramento con normalizzazione della FR;
- Riduzione del lavoro respiratorio;
- Parametri cardiovascolari nella norma.
Se le condizioni del paziente migliorano, in corso di trattamento, sarà possibile ridurre i valori di FiO2 fino ad arrivare al 30%, così come il flusso di O2 di 0.5-1L/min ogni 4h. Al fine di sospendere l’utilizzo dell’HFNC sarà necessario:
- Un flusso compreso tra 2-4 L/min per almeno 24h;
- FiO2 < 30%.
Bibliografia
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9. Maffei G, Magaldi R. High flow oxygen-therapy in neonatology. Medico e Bambino 2013;32:39-41.
10. Dysart K, Miller TL, Wolfson MR, Shaffer TH. Research in high flow therapy: Mechanisms of action. Respir Med 2009;103:1400-5.
11. Papoff P, Cicchetti R, Luciani S et al. Ossigenoterapia ad alti flussi tramite nasocannule nel bambino con insufficienza respiratoria acuta: meccanismo d’azione e indicazioni d’uso. Area Pediatrica Vol. 17 n. 1 gennaio–marzo 2016.
12. Greenspan JS, Wolfson MR, Shaffer TH. Airway responsiveness to low inspired gas temperature in preterm neonates. J Pediatr 1991;118(3):443e5.
13. Kubicka ZJ, Limauro J, Darnall RA. Heated, humidified high-flow nasal cannula therapy: yet another way to deliver continuous positive airway pressure? Pediatrics 2008;121(1):82-8.
14. Nider S, Benelli E, Norbedo S. Ossigenoterapia ad alti flussi. Medico e Bambino 6/2015. 15. Wing R, James C, Maranda LS, Armsby CC. Use of high-flow nasal cannula support in the emergency department reduces the need for intubation in pediatric acute respiratory insufficiency. Pediatr Emerg Care 2012;28(11):1117-23.
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Original article Xerra F1, Pellegrino DF1, Ferraù V2, Sturiale M2, Colavita L2, Cuppari C2 1Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina 2UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Terapia antibiotica in corso di polmonite: linee guida NICE 2019
Introduzione
La polmonite rappresenta in età pediatrica la prima causa di morte come patologia infettiva. Ad esserne maggiormente vittime sono i bambini con cardiopatie congenite, patologie polmonari croniche, immunodepressione, quelli residenti nei paesi in via di sviluppo e quelli di età inferiore ai due anni. La Consensus on Childhood global pneumonia, riunitasi a Gennaio del 2020, stima che nel mondo ogni anno ci siano oltre 800.000 morti in età pediatrica per polmonite.
Per quanto sia dunque una patologia nota e studiata, è evidente che il suo management e la sua gestione terapeutica potrebbero e dovrebbero essere migliorati.
A settembre 2019 la NICE (National Institute for Health and Care Excellence), ridefinisce le precedenti linee guida, risalenti al 2014, circa la diagnosi e il management della polmonite acquisita in comunità (CA-P). Queste ultime non includevano delle raccomandazioni dettagliate sulla terapia antibiotica; così la NICE decide di aggiungere una sezione apposita, definendo le strategie corrette di trattamento farmacologico negli adulti, adolescenti e bambini con una diagnosi di polmonite acquisita in comunità. L’obiettivo è quello di ottimizzare l’utilizzo degli antibiotici e ridurre i livelli di antibiotico resistenza.
Raccomandazioni in età pediatrica
Management della CA-P
Nella scelta della terapia antibiotica bisogna prendere in considerazione:
- La severità del quadro clinico, in base a segni e sintomi clinici;
- Il rischio che ha quel paziente di sviluppare complicanze;
- Antibiotico-resistenza e dati epidemiologici;
- Il recente utilizzo di antibiotici;
- I risultati microbiologici;
E’ necessario iniziare la terapia antibiotica quanto prima possibile, in ogni caso entro 4 ore dalla diagnosi e entro 1 ora nel caso in cui ci sia una sospetta sepsi;
• Prescrivere in prima linea una terapia per OS, se chiaramente il paziente riesce ad assumerla e laddove non vi sia un quadro di assoluta severità tale da richiedere farmaci per via endovenosa;
• Se viene somministrata una terapia per via endovenosa, è necessario riconsiderarla e cercare di switchare ad una terapia per OS entro 48h;
• Laddove possibile, cercare sempre di effettuare esami microbiologici su espettorato;
• Rivalutare la terapia, tenendo conto anche di possibile eziologia virale, laddove i sintomi non dovessero migliorare o dovessero peggiorare rapidamente;
• Non tutti i casi di polmonite necessitano di ospedalizzazione.
Scelta della terapia antibiotica
Vengono effettuate delle raccomandazioni differenti per le forme non severe e per quelle severe.
Forme non severe

Figura 1. Tratto da [1]Per le forme non severe, viene fatta un’ulteriore distinzione in base all’età. Le linee guida non si pronunciano circa la prescrizione da effettuare sotto il mese di vita. Oltre il mese di vita, in prima linea, per le forme non severe, bisogna adoperare l’Amoxicillina, molecola altamente efficace contro la maggior parte dei patogeni causativi di polmonite e assolutamente ben tollerata. In alternativa, per i casi di allergie alle penicilline o per sospetto di patogeni atipici, viene consigliata la Claritromicina. E’ evidente che laddove la prima linea terapeutica non sia adeguata, bisogna tener in considerazione sempre il quadro clinico del paziente, consulenze specialistiche infettivologiche e approfondimenti microbiologici da valutare da caso in caso.
Forme severe

Figura 2. Tratto da [2]
Per le forme severe iniziamo con l’Amoxicillina-Clavulanato; se vi è un sospetto di un patogeno atipico, aggiungiamo ad essa, la Claritromicina.
Nelle forme severe infatti la sola Amoxicillina potrebbe non essere in grado di contrastare tutti i possibili patogeni ed è necessaria una terapia con uno spettro d’azione più ampio. Il rischio di antibiotico resistenza è comunque minore rispetto al beneficio clinico che otterremo.
Anche qui chiaramente viene ribadito che laddove è possibile, è necessario farsi guidare dai risultati microbiologici.
Dosaggio degli antibiotici
Un dosaggio basso di amoxicillina (45mg/Kg/die diviso in 3 dosi) non è significativamente differente da un elevato dosaggio (90 mg/Kg/die diviso in 3 somministrazioni). Tenuto conto di questa evidenza, la commissione è concorde sull’utilizzo del dosaggio minimo efficace di amoxicillina.
Durata della terapia
La commissione è concorde sul fatto che la terapia antibiotica dovrebbe essere effettuata per il più breve tempo che si dimostra essere efficace, ai fini di ridurre i tassi di antibiotico resistenza e gli eventi avversi. La durata ottimale dovrebbe essere di cinque giorni. Utilizzare un antibiotico ad ampio spettro per più tempo del necessario può far aumentare il rischio di tassi di antibiotico-resistenza.
Strategie di prescrizione
• Non sempre è facile distinguere una forma virale da una batterica. Considerata l’elevata mortalità, secondo la commissione, a tutti i pazienti con CA-P dovrebbe essere somministrata una terapia antibiotica;
• Nonostante la procedura non sia sempre agevole da effettuare in età pediatrica, è consigliabile effettuare sempre la raccolta di un campione di espettorato per poter effettuare gli approfondimenti microbiologici adeguati. Quando sono disponibili i risultati microbiologici è dunque opportuno cambiare terapia utilizzandone una a spettro d’azione più ristretto. Nelle forme non severe, non è necessario di routine effettuare questo approfondimento: la prima linea terapeutica è adeguata ed efficace nella stragrande maggioranza dei casi.
Conclusioni
La corretta gestione della polmonite acquisita in comunità rappresenta tutt’oggi una sfida per il clinico. Le Linee guida della NICE del 2019 suggeriscono di basarci sul nostro giudizio clinico, piuttosto che su esami strumentali, per comprendere la gravità del quadro clinico e, in base a questa, improntare una corretta scelta terapeutica, utilizzando dei regimi terapeutici brevi e al dosaggio minimo efficace.
Bibliografia
[1] Pneumonia (community-acquired): antimicrobial prescribing; NICE guideline. Published: 16 September 2019 www.nice.org.uk/guidance/ng138
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Amatruda M 1, Salamone A 2, Ferraù V 2, Sturiale M 2, Cuppari C 21Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina 2UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Una linfoadenopatia sottomentoniera
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Case report Amatruda M1, Salamone A2, Ferraù V2, Sturiale M2, Cuppari C2 1Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina 2UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Una linfoadenopatia sottomentoniera
Abstract
Descriviamo il caso aperto di una bambina con tumefazione sottomentoniera cronica in assenza di altri segni e/o sintomi sistemici, anamnesi familiare positiva per neoplasie e CMV-DNA positivo. Il sospetto infettivo non veniva confermato dall’ esame bioptico che, al contrario, era compatibile con la diagnosi di rabdomiosarcoma, neoplasia infantile maligna che origina dalle cellule mesenchimali immature a differenziazione muscolare striata. La familiarità positiva per neoplasie e l’associazione con il Citomegalovirus potrebbero spiegare, nel caso di Eline, un’eventuale predisposizione genetica a sviluppare il tumore, che, data l’aggressività richiede una tempestiva diagnosi e terapia.
Caso clinico
Descriviamo il caso di Eline, bambina di origine magrebina dall’età di 3 anni e 10 mesi giunta alla nostra osservazione per la comparsa da circa 3 mesi di una tumefazione in regione sottomentoniera (vedi Fig.1) che aumentava progressivamente di dimensioni. Non sono riferiti altri segni e/o sintomi sistemici associati quali la febbre, il dolore e/o il calo ponderale. È orfana di entrambi i genitori, deceduti in giovane età per cause neoplastiche: il padre per carcinoma polmonare, la madre per tumore cerebrale. Gli esami ematochimici eseguiti in Tunisia, alla comparsa della tumefazione, erano nella norma e l’ecografia della regione del collo documentava “una formazione ovalare dalle dimensioni di circa 18x12x8 mm con plurime linfoadenopatie sotto angolomandibolari bilaterali”. Non veniva riferito beneficio dopo l’avvio di un ciclo di terapia antibiotica con amoxicillina-acido clavulanico. Giunta alla nostra osservazione, la tumefazione obiettivamente si presentava di circa 4 cm di dimensioni, con consistenza solida e con poca mobilità rispetto al piano sottostante. Non dolente alla palpazione superficiale, presentava la cute sovrastante integra e si associava a mesoadenia laterocervicale bilaterale. La restante obiettività cardio-toraco-addominale era nella norma, con organi ipocondriaci dalle dimensioni apparentemente nei limiti.
Alla luce del quadro clinico e anamnestico si avviava il work up diagnostico in accordo alle linee guida 2016 per la gestione delle linfadenopatie della regione testa-collo in età pediatrica. Gli esami di I livello, comprendenti emocromo, PCR, LDH e transaminasi, erano nella norma e lo striscio con tipizzazione periferica documentava una leucocitosi con linfocitosi assoluta. Al fine di escludere le principali cause infettive di linfadenopatia si eseguivano anche la sierologia per Epstein-Barr Virus (EBV), Toxoplasma gondii, Bartonella henselae, Herpes simplex virus 6, Citomegalovirus (CMV), il test Mantoux e Quantiferon, tutti nella norma. La reazione a catena della polimerasi (polymerase chain reaction, PCR) real-time (RT-PCR) documentava, tuttavia, la presenza di carica virale del CMV con circa 3.200.000 copie/ml, con sierologia, tuttavia, negativa. L’ecografia collo confermava il precedente riscontro di una “disomogenea formazione espansiva, con dimensioni di 27x23x20 mm, aspetto iso-ipoecogena e calcificazioni nel suo contesto. I linfonodi limitrofi presentavano un aspetto reattivo”. L’RX del torace e l’ecografia addome, eseguiti in un secondo momento, presentavano esito negativo. Si procedeva, pertanto, con una risonanza magnetica del distretto testa-collo che documentava una linfoadenopatia in fase di colliquazione, con interessamento cutaneo e linfoadenopatie satellite, che supportava il sospetto di eziologia infettiva. Riepilogando, lo scenario clinico era quello di una bambina con una tumefazione unilaterale cronica (>6 settimane), senza sintomi sistemici associati, con una anamnesi familiare positiva per neoplasie e con carica virale positiva. Nello specifico si riscontrava CMV-DNA, confermato al secondo dosaggio su tampone faringeo (1.750.000 copie/ml), ma non su sangue ed urine. Alla luce del quadro obiettivo, laboratoristico e strumentale e al fine di dirimere il dubbio diagnostico, tra causa infettiva o neoplastica, si eseguiva una biopsia della lesione con riscontro di elementi neoplastici compatibili con la diagnosi di rabdomiosarcoma (RMS). Le cellule presentavano scarso e assente citoplasma, nuclei rotondi, focalmente fusati, ipercromici ed occasionalmente nucleolati; rari elementi avevano nuclei di grosse dimensioni. L’ immunofenotipo era positivo per vimentina, desmina, MYOD1 e miogenina (>50%). La piccola Eline è stata, pertanto, trasferita presso un centro specialistico di oncoematologia pediatrica, dove la diagnostica molecolare confermava la diagnosi di rabdomiosarcoma embrionale.
Discussione
Il rabdomiosarcoma (RMS) è la neoplasia infantile maligna che origina dalle cellule mesenchimali immature a differenziazione muscolare striata. Presenta una clinica differente a seconda delle sedi colpite. Nel 35% dei casi interessa la regione testa collo (comprese orbita e aree para meningee) con comparsa clinica di lacrimazione, dolore oculare, esoftalmo, raucedine, secrezioni ecc.; nel 26% l’apparato genitourinario, con riferito dolore addominale e/o disturbi della minzione; nel 19% le estremità, dove si manifesta prevalentemente come massa solida e indolenti e infine, nella restante percentuale di casi, il tronco ed altri siti vari. Nel 15-25% dei casi, la neoplasia è, tuttavia, asintomatica perché in fase metastatica [1].
E’ il sarcoma più frequente in età pediatrica; rappresenta il 2-3% dei tumori pediatrici e il 36% dei sarcomi. Ha una incidenza annua di 4-5 casi su 1.000.000 di persone. L’andamento è bimodale con due picchi di incidenza: 2-6 anni e 10-18 anni, senza apparente prevalenza di sesso [2].
L’eziologia è ancora sconosciuta, ma esistono fattori di rischio che predispongono allo sviluppo del tumore. Essi sono genetici come la Sindrome di Li Fraumeni correlata ad una mutazione dell’oncosoppressore TP53 che aumenta la suscettibilità al cancro o ad altre come la Neurofibromatosi di tipo I, la S. di Costello, la S. di Noonan o la Beckwith-Wiedemann. Predispongono la malattia anche fattori ambientali come l’esposizione a radiazioni ionizzanti in fase prenatale, l’uso materno e paterno di droghe e/o la familiarità per il rabdomiosarcoma [1]. Esiste una correlazione tra RMS e CMV? Il CMV è stato riscontrato in tumori umani, ma non è stata provata ancora la sua oncogenicità. Studi recenti hanno, tuttavia, suggerito meccanismi attraverso cui il CMV può modulare l’ambiente tumorale. In uno studio pubblicato da Price RL e collaboratori su Cancer Research nel 2012, la ricerca condotta su modelli murini ha offerto un importante supporto per l’ipotesi secondo cui l’infezione da CMV può predisporre lo sviluppo di un RMS pleomorfo nel contesto di una mutazione della proteina 53 correlata alla trasformazione (transformation related protein 53, Trp53), situazione che occorre con notevole frequenza nel RMS umano. Sono, tuttavia, necessari ulteriori studi futuri al fine di dimostrare l’oncogenicità del virus [3].
Dal punto di vista anatomopatologico esistono due istotipi prevalenti: RMS embrionale (Embryonal RMS, ERMS) ed alveolare (Alveolar RMS, ARMS). L’ERMS si localizza prevalentemente nella regione della testa, del collo e dell’apparato genitourinario ed è correlato, dal punto di vista eziologico, ad una perdita di eterozigosi sul cromosoma 11p15.5, dove è localizzato il gene che codifica per il fattore di crescita insulino-simile di tipo 2 (insulin-like growth factor 2, IGF-2). La perdita di eterozigosi (loss of heterozygosity, LOH) è un meccanismo per il quale si verifica l’inattivazione di un allele di un gene con II allele già precedentemente mutato. Nel caso specifico, il gene IGF-2 è sovraespresso, con un meccanismo ancora non del tutto chiaro. Esso è un gene “imprinted”, il che significa che solo l'allele paterno è trascrizionalmente attivo. La 11pLOH potrebbe portare alla perdita di informazioni genetiche materne con duplicazione delle informazioni genetiche paterne (disomia paterna). L’ ARMS, più raro, intessa prevalentemente tronco e arti ed è spesso associato a traslocazioni cromosomiche bilanciate che interessano il cromosoma 1 o 2 e il cromosoma 13. La traslocazione più comune interessa i bracci lunghi del cromosoma 2 e 13: t (2; 13) (q35; q14) e fonde il gene PAX3 con il gene FOXO1, un fattore di trascrizione. La traslocazione meno comune, t (1; 13) (p36; q14), fonde un gene diverso, il gene PAX7 situato sul cromosoma 1 con FOXO1. Si ipotizza che questi geni di fusione unici attivino in qualche modo la trascrizione di altri geni che contribuiscono al fenotipo trasformato, sebbene i meccanismi con cui ciò si verifica non sono ancora del tutto chiari [1].
La diagnosi è istologica. Sono, tuttavia, utili esami strumentali come la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica soprattutto nel caso di lesioni localizzate a livello della regione testa-collo. Con la microscopia ottica è possibile distinguere tra le forme alveolari ed embrionali; nelle forme dubbie o per una migliore prognosi è necessaria la biologia molecolare, che mediante le metodiche di ibridazione fluorescente in situ (Fluorescent in situ hybridization, FISH) o la RT-PCR, consentono di riconoscere le traslocazioni alla base della neoplasia e distinguere così tra le forme “fusion positive RMS” le “fusion negative RMS”. La stadiazione è un momento estremamente importante per comprendere quanto la malattia è diffusa e quali terapie utilizzare. Il trattamento richiede, la collaborazione di una équipe medica in centri specializzati e con casistica ed esperienza adeguate. Il percorso terapeutico prevede solitamente l’utilizzo di diversi trattamenti in combinazione (chirurgia, chemioterapia e radioterapia). La chirurgia resta in genere la prima scelta per il rabdomiosarcoma al fine di rimuovere completamente o quanto più possibile la massa tumorale. In alcuni casi però, l’approccio chirurgico è impossibile da praticare ed è quindi necessario scegliere altre vie, come la chemioterapia e la radioterapia al fine di ridurre la massa tumorale prima dell’intervento chirurgico o per trattare le aree residue. Essendo pazienti pediatrici è, tuttavia, importante considerare anche gli eventuali effetti collaterali dei trattamenti farmacologici adottati, per impedire deficit funzionali o tossicità a lungo termine [2]. La sopravvivenza dipende dalla localizzazione del tumore: se è limitata alla sede di origine sarà pari al 70%; nel caso di lesioni metastatiche si ridurrà al 30% [1].
Conclusioni
La piccola Eline presentava una malattia al terzo stadio, non resecabile chirurgicamente, con coinvolgimento linfonodale non metastatico per cui si avviava, secondo protocollo europeo EpSSG RMS2005, il trattamento chemioterapico con Ifosfamide, Vincristina e Actinomicina d (IVA). Al sesto ciclo, per scarsa risposta clinica e per ricomparsa delle lesioni, si sospendeva il primo ciclo di chemioterapia modificando il trattamento terapeutico successivo. Si avviava, pertanto, la radioterapia e in concomitanza il secondo ciclo di chemioterapia. Solo in seguito, anche in base della risposta clinica, si valuterà se effettuare o meno la resezione chirurgica della lesione.
Il caso di Eline è, in conclusione, un caso ancora aperto, interessante dal punto di vista didattico per comprendere l’importante e complessa gestione delle linfoadenopatie del distretto testa collo. Il rabdomiosarcoma è un tumore aggressivo che può invadere strutture contigue e/o diffondere per via ematica e linfatica e, per tale motivo, richiede l’inserimento precoce in protocolli terapeutici. Come abbiamo approfondito esiste una predisposizione genetica a sviluppare il rabdomiosarcoma, che potrebbe spiegare anche la familiarità della piccola Eline per patologie neoplastiche e il riscontro di CMV-DNA. Sono, tuttavia, necessari ulteriori studi futuri per dimostrare l’oncogenicità del Citomegalovirus.

Figura 1. Bibliografia
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Pellegrino DF 1, Xerra F 1, Costa S 2, Pellegrino S 2, Romano C 2 1Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina 2UO Gastroenterologia Pediatrica con Fibrosi Cistica, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Un caso di Very Early Onset IBD
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Case report Pellegrino DF1, Xerra F1, Costa S2, Pellegrino S2, Romano C2 1Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina 2UO Gastroenterologia Pediatrica con Fibrosi Cistica, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Un caso di Very Early Onset IBD
Alex, 10 mesi giunge alla nostra attenzione per un quadro clinico caratterizzato da rettorragia (sangue > 50% del contenuto fecale) ed aumento della frequenza evacuativa (7-8 evacuazioni/die, di cui 3-5 notturne). Terzogenito, nato a termine da gravidanza normodecorsa esitata in parto eutocico con peso alla nascita di 3430 g. Fenomeni neonatali riferiti nella norma. Allattamento misto fin dalla nascita. Sviluppo staturo-ponderale e psico-motorio riferiti nella norma. Svezzamento a VII mesi, secondo le comuni modalità. Vaccinazioni riferite non in regola secondo calendario Nazionale. Anamnesi familiare positiva per piastrinopenia secondaria (zio paterno) e leucemia mieloide cronica (nonno materno). Dall’anamnesi patologica remota emerge una storia di dermatite atopica sin dai primi mesi di vita ed un ricovero presso altro Centro all’età di 3 mesi per piastrinopenia secondaria (PLT 1.000 mmc), trattata con infusione di PLT ed immunoglobuline endovena. Da allora benessere clinico fino all’età di 6 mesi quando compariva ematochezia (sangue < 50% del contenuto fecale con filamenti di muco, non presente a tutte le evacuazioni) e veniva riscontrata la presenza di una ragade anale, trattata con corticosteroide topico. Dopo 3 mesi, per la comparsa di rettorragia (sangue > 50%, del contenuto fecale, presente in tutte le evacuazioni), veniva ricoverato presso altro Centro e sottoposto ad esami ematochimici, Prick skin test e RAST test per le proteine del latte vaccino, esami infettivologici su feci, colonscopia con prelievo bioptico ed esame istologico e scintigrafia intestinale con 99mTc. Dalle indagini laboratoristiche e microbiologiche emergevano un’anemia (Hb 9.1 gr%), per la quale il piccolo veniva sottoposto ad emotrasfusione, una sospetta APLV per cui Alex e la madre avviavano dieta priva di proteine del latte vaccino ed una positività per Rotavirus, mentre dalle indagini strumentali emergeva una flogosi con erosione dell’epitelio di rivestimento, focale distorsione delle cripte e criptite a carico di tutto il grosso intestino. Durante la degenza, inoltre, veniva sottoposto ad antibioticoterapia e dimesso in condizioni di benessere clinico, con indicazione ad eseguire valutazione gastroenterologica ambulatoriale. Alla luce della ricomparsa della sintomatologia e dei risultati degli esami ematochimici effettuati c/o i nostri ambulatori di Gastroenterologia Pediatrica che indicavano un quadro infiammatorio acuto (GR 3.940.000 mmc, Hb 9.2 gr%, GB 17.400 mmc (N 32%, L 63%), PLT 612.000 mmc, PCR 2.31 mg/dl, VES 47. Al protidogramma lieve incremento delle α1 e α2 globuline e lieve riduzione delle β1 e β2 globuline), si predisponeva il ricovero del piccolo per gli ulteriori accertamenti e le cure del caso. All’esame obiettivo i parametri vitali risultavano nella norma, la crescita ai limiti bassi per età (Peso 7.9 Kg (10° P), H 68 cm (5° P), PI/H 83%), le condizioni cliniche generali apparivano buone, la cute si presentava roseo-pallida, normoidratata, le mucose rosee, umide e l’obiettività cardio-toraco-addominale negativa. Le borse scrotali apparivano disabitate, con tumefazione a destra e possibilità di riportare in sede i testicoli. In corso di ricovero Alex veniva sottoposto ad esami ematochimici, EGA venoso, esame dello striscio periferico e tipizzazione linfocitaria, screening per celiachia, esami infettivologici su feci, ecografia dell’addome e delle borse scrotali ed ECG risultati nella norma, RAST al latte risultati positivi ed avviava terapia con Metronidazolo x 3 vv/die e Deltacortene 5 mg x 2 vv/die, con parziale beneficio clinico. Durante la degenza si monitorava il quadro clinico-laboratoristico e si assisteva ad una progressiva riduzione dei valori di GR, Hb ed Htc fino a valori di GR 3.180.000 mmc, Hb 7.2 gr%, HCT 23%, raggiunti i quali si decideva di avviare emotrasfusione (80 ml in 3 h), ottenendo un incremento soddisfacente dei valori di Hb (9.3 gr%). Inoltre, per il persistere del sanguinamento gastrointestinale, si sostituiva la terapia cortisonica per os con Metilprednisolone 15 mg/die endovena e si avviava IPP. Stabilizzato il quadro emodinamico, Alex veniva sottoposto a rettosigmoidoscopia con biopsia, il cui quadro macroscopico deponeva per una colite emorragica RCU like (Mayo 4) e quello istologico per la presenza di reperti suggestivi per MICI NAS (Immagine 1).

Immagine 1. Rettosigmoidoscopia: A partire dal margine anale interno la mucosa appare congesta, con erosioni superficiali, perdita del pattern vascolare, sanguinamento spontaneo. Tale quadro coinvolge sigma, retto e colon sx. Boston score 2 + 2.
Inoltre, alla luce della storia clinica del piccolo, veniva posto il sospetto di Sindrome di Wiskott-Aldrich e si effettuavano studio genetico e valutazione dell’espressione della proteina WAS, risultati negativi/nella norma.
Conclusioni e discussione
Il caso descritto è quello di una Very Early onset IBD, una forma di malattia infiammatoria cronica intestinale caratterizzata da esordio precoce (al di sotto dei 6 anni d’età), vasta infiammazione del colon, maggiore durata di malattia e scarsa risposta alle terapie standard. Dopo circa due settimane di terapia steroidea endovenosa si otteneva una buona risposta clinica (assenza di sangue nelle feci, riduzione del numero di evacuazioni), per cui Alex veniva dimesso con indicazione a proseguire dieta priva di PLV (anche materna), integratore di acido folico e Prednisone a 10 mg/die e veniva affidato ai nostri ambulatori di Gastroenterologia Pediatrica per il successivo follow-up. Ai successivi controlli ambulatoriali a 2-3-4 mesi dalla dimissione, l’andamento clinico in corso di terapia steroidea veniva ritenuto ottimale, per cui si proseguiva lo svezzamento dal cortisone fino a completa sospensione e si avviava terapia sistemica con Mesalazina 250 mg x 2 vv/die che il piccolo pratica tutt’ora, senza che vi siano stati segni di ripresa di malattia.
Le Inflammatory Bowel disease (IBD), sono patologie ad eziologia sconosciuta che presentano un’evoluzione di tipo autoimmune e che si caratterizzano per un decorso remittente-recidivante. Dal punto di vista fisiopatologico, in individui geneticamente predisposti un trigger (probabilmente infettivo) attiva il Sistema Immunitairo che risponde in maniera inadeguata ed eccessiva, producendo una reazione infiammatoria cronica a carico del sistema digerente che ne sconvolge la normale anatomia e ne disturba il funzionamento [1]. Le IBD comprendono 3 diverse tipologie di manifestazioni cliniche: - Malattia di Chron (CD): può coinvolgere tutto il tratto GI, dalla bocca all’ano. Le porzioni più frequentemente colpite sono l’ileo terminale (71%) ed il colon destro (71%). Si caratterizza per un’infiammazione transmurale, discontinua che può coinvolgere anche la sierosa; - Rettocolite Ulcerosa (UC): coinvolge esclusivamente l’intestino crasso e consiste in un processo infiammatorio superficiale. A seconda dell’estensione della flogosi distinguiamo: proctite, colite sinistra, pancolite;
- Colite indeterminata: entità clinicamente simile sia alla CD che alla UC, che biopticamente presenta caratteristiche intermedie fra le due.
La diagnosi si avvale di criteri clinici (es. PUCAI score), esami laboratoristici che possono evidenziare un incremento degli indici di flogosi (VES, PCR, aumento della conta piastrinica), anemia, segni di malnutrizione, criteri radiologici ed endoscopici (score MAYO). Per la valutazione delle complicanze possono impiegarsi anche esami di 2° livello come TC ed RMN.
In base all’età d’esordio possiamo inoltre distinguere le IBD in:
• Late Onset IBD: distribuzione bimodale dell’esordio della patologia, con un picco precoce tra i 10 e 20 anni ed un secondo picco tra i 50 e i 70 anni;
• Early Onset IBD: esordio prima dei 18 anni d’età. Questi pazienti presentano un coinvolgimento intestinale ed un decorso clinico più grave rispetto a quelli degli adulti. Spesso è presente familiarità per IBD, il che suggerisce un’importante associazione genetica (Tabella 1);
• Very Early onset IBD: esordio al di sotto dei 6 anni d’età. Questi pazienti presentano vasta infiammazione del colon, maggiore durata di malattia e scarsa risposta alle terapie standard. È inoltre presente una familiarità molto più forte e le varianti genetiche coinvolte si distinguono da quelle del gruppo precedente poiché riguardano spesso geni associati ad immunodeficienze primarie.
Le forme di malattia ad insorgenza precoce si caratterizzano, inoltre, per una maggiore severità, un alterazione nutrizionale più marcata ed una maggiore probabilità di dover ricorrere alla chirurgia [2].

Tabella 1. Geni associati alle IBD. Tratta da [2] Management
Gli obiettivi della farmacoterapia nelle IBD includono il controllare le ricadute, il mantenere la remissione ed il trattare le complicanze di malattia. Corticosteroidi, aminosalicilati ed agenti immunosoppressori, come l’azatioprina vengono abitualmente utilizzati nel management delle IBD [3]. Un approccio relativamente recente è rappresentato dall’utilizzo di anticorpi monoclonali umanizzati (es. Infliximab, Vedolizumab) che agiscono modificando il pathway biochimico infiammatorio interessato. Nello specifico, gli steroidi rappresentano il trattamento di scelta nelle riacutizzazioni da moderate a gravi ma non sono adatti per un uso a lungo termine a causa dei loro effetti collaterali e dell’incapacità di mantenere la remissione. Di contro, gli immunosoppressori che richiedono diverse settimane per ottenere il loro effetto terapeutico, hanno un ruolo limitato nel contesto acuto ma sono da preferire nella gestione a lungo termine così come i biologici (Immagine 2) [4]. L’approccio tradizionale al trattamento delle IBD viene definito “step-up” e consiste nell’utilizzo in successione di farmaci a potenza via via più elevata man mano che la gravità della malattia aumenta (es. mesalazina, steroide, immunosoppressore,biologico), fino all’intervento chirurgico quando la malattia non risponde più ad alcun tipo di trattamento medico. Negli anni si è visto che i farmaci biologici, similmente agli immunosoppressori, funzionano meglio se utilizzati nelle fasi precoci di malattia, quando ancora l’infiammazione non ha alterato in modo irreversibile la struttura intestinale. Di conseguenza, il nuovo approccio terapeutico nelle IBD risulta essere più frequentemente quello “top-down”, che prevede fin dall’inizio l’utilizzo di farmaci più aggressivi, capaci di modificare la progressione della malattia, per poi shiftare verso farmaci come gli antinfiammatori topici/sistemici nelle fasi successive, una volta stabilizzato il quadro clinico. Un giusto compromesso tra i due approcci potrebbe essere lo “step-up accelerato”, che prevede il rapido passaggio alla terapia biologica o immunosoppressiva in caso di mancata risposta al primo tentativo terapeutico con steroidi o di precoce riacutizzazione dei sintomi alla sospensione del cortisone. Tuttavia, la scelta della terapia top-down o step-up nel trattamento delle IBD dovrebbe essere un approccio individualizzato e non può essere raccomandato come parte di una linea guida generalizzata [5].

Immagine 2. Approccio step-up nella terapia delle IBD. Tratto da [6]
Bibliografia
1. MacDonald TT & Monteleone G, Science 2005; 307:1920-5.
2. Moazzami B., Moazzami K., Rezaei N., Early onset inflammatory bowel disease: manifestations, genetics and diagnosis. The Turkish Journal of Pediatrics 2019; 61: 637-647.
3. Hanauer SB, Baert F: Medical therapy of inflammatory bowel disease. Med Clin North Am, 1994, 78, 1413–1426.
4. Anand B. Pithadia, Sunita Jain: Treatment of inflammatory bowel disease (IBD). Pharmacological Report, 2011, 63, 629-642.
5. M.S. Salahudeen: A review of current evidence allied to step-up and top-down medication therapy in inflammatory bowel disease. Drugs Today (Barc), 2019 Jun, 55(6):385-405. 6. Magro F., Gionchetti P., Eliakim R. et al., for the European Chron’s and Colitis Organization [ECCO]. Third European Evidence-based Consesus on the Diagnosis and Management of Ulcerative Colitis. Part 2: Current Management. Journal of Chron’s and Colitis, 2017, 1-24.
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Original article Cavò G, Venuti S UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Benefici della Musicoterapia nell'età evolutiva
Da tempo è noto come l'ascolto e l'esecuzione di suoni e melodie possano agire sugli stati d'animo e sulle emozioni, in virtù delle loro proprietà rilassanti o stimolanti. Tuttavia, più recentemente, l'interesse scientifico si è focalizzato sulla possibilità di sfruttare tale pratica come terapia complementare in diverse condizioni patologiche e parafisiologiche. Nell'assistenza sanitaria pediatrica, interventi di tipo non farmacologico, come la musicoterapia, hanno un potenziale promettente per integrare le opzioni di trattamento standard medico ed infermieristico, al fine di facilitare il recupero e il benessere. Ad oggi esistono moltissime definizioni di musicoterapia, ma tutte comunque si attengono alla definizione della World Federation of Music Therapy del 1996, secondo la quale la musicoterapia consiste nell'utilizzo della musica e/o degli elementi musicali con lo scopo di facilitare e promuovere diversi obiettivi terapeutici al fine di soddisfare bisogni fisici, emotivi, mentali, sociali e cognitivi, il tutto avviene attraverso la prevenzione, la riabilitazione o il trattamento (1). L'esperienza primordiale del suono ha luogo già durante la gestazione in quanto, l'ovulo appena fecondato, una volta annidato nell'utero, entra in contatto con le pulsazioni del cuore materno e altre vibrazioni quali: battiti cardiaci, rumori intestinali e respiratori, movimento del liquido amniotico, movimenti parietali uterini, etc. Crescendo poi, di settimana in settimana, il feto inizia a percepire questi suoni vitali e a distinguerli. Possiamo distinguere due diversi metodi di intervento: musicoterapia attiva e musicoterapia recettiva, entrambi basati esclusivamente sull'ascolto. Ma qual è la differenza? La musicoterapia attiva è basata su creazione ed emissioni di suoni da parte del paziente con un'interazione tra paziente e musicoterapista, in cui il ruolo dell'infermiere musicoterapeuta è di ascolto con il quale seguirà il suo paziente. Questo metodo di intervento si utilizza per lo più con pazienti in età evolutiva, con deficit e disabilità psicofisici anche molto gravi, con difficoltà e disagi nei processi espressivi, comunicativi e relazionali. La musicoterapia recettiva invece, è incentrata sull'ascolto, ma in questo caso da parte del paziente, il quale è chiamato a svolgere un ruolo passivo rispetto al professionista, al fine di imparare ad ascoltare il proprio mondo esterno e anche quello altrui. La Musicoterapia nell'assistenza sanitaria pediatrica La Musicoterapia in ambito sanitario ha un fine di tipo terapeutico e utilizza il suono per intervenire da un punto di vista psicologico. In particolare, quando parliamo di pazienti pediatrici, questo trattamento di tipo non farmacologico può essere di aiuto ad altre terapie e agire sotto due principali punti di vista: da una parte vi è un aspetto tecnico, che utilizza dunque la musica come diversivo, provando a distrarre il piccolo paziente da quella che può essere l'ansia per un particolare tipo di procedura o situazione; dall'altra, invece, vi è l'aspetto umano, il cercare un punto di incontro con il bambino, attirando la sua attenzione e cercando di avvicinarsi a lui da un punto di vista emotivo. E' necessario, dunque, fare una distinzione tra musica come terapia e musica in terapia: nel primo caso, la musica viene utilizzata come pratica accessoria ad altre pratiche mediche, con lo scopo di ridurre l'ansia preoperatoria, agevolare il risveglio del paziente, rilassare il personale medico prima di un intervento, etc.; nel secondo caso, prevale maggiormente il rapporto paziente-professionista e la musica viene utilizzata solo come medium di una relazione (2).  Facendo riferimento al concetto di "Evidence Based Practice" (3), questo intervento richiede delle fasi ben precise: 1. Criteri di invio: a chi è rivolto il trattamento? Per poter intervenire, è necessario avere, prima di tutto, la disponibilità e la volontà del paziente o, nel caso pediatrico, il consenso dei caregivers; 2. Assessment musicoterapeutico: si valuta la reale idoneità del paziente, dunque l'infermiere pediatrico stila un piano di intervento, in collaborazione con tutta l'équipe; 3. Definizione degli obiettivi musicoterapici: l'infermiere pediatrico individua le aree di funzionamento su cui porre l'attenzione, a partire dai tratti del bambino ancora non completamente compromessi; 4. Il contratto musicoterapico: si cerca di condividere con il bambino, e la famiglia, il piano terapeutico in modo che questo possa essere accettato a pieno; 5. Il trattamento: che può avvenire solo dopo l'avvenuto consenso; 6. Valutazione: valutazione generale a seguito del trattamento; 7. Conclusione del trattamento: se si è raggiunto l'obiettivo. I benefici della musicoterapia nel neonato pretermine Oggi la prematurità costituisce uno dei maggiori problemi in ambito sanitario: ogni anno 1 neonato su 10 (corrispondenti circa a 14,9 milioni di neonati) nasce prematuramente ed è soggetto vulnerabile a mortalità, morbilità e varie forme di disabilità (4). In particolare, è stato osservato che nei neonati pretermine vi possono essere delle interruzioni di specifiche strutture neuronali, includendo il volume ridotto del talamo, dell'ippocampo e del lobo frontale, e un'alterata connettività funzionale nel corpo striato del telencefalo. Secondo diverse revisioni sistematiche, oggi, gli interventi precoci di tipo non farmacologico, utilizzati nelle Unità di terapia intensiva, sono molti fra cui la musicoterapia. La Musicoterapia può aiutare ad ottimizzare alcuni aspetti delle condizioni critiche nel neonato pretermine e, dunque, migliorare alcuni degli effetti negativi sullo sviluppo del cervello, attenuando la risposta allo stress, fornendo un segnale di contatto sociale positivo e offrendo una forma di arricchimento ambientale. Le "regole d'oro" degli interventi musicali nelle UTIN sono "less is more" e "minimal change, minimal range" (trad. "Di meno è meglio" e "Minimo cambiamento, minimo range". (5) Queste regole fanno riferimento, sia alla durata, che al numero di strumenti musicali utilizzati. La procedura di tale tecnica è diversa a seconda della musica utilizzata, se preregistrata o live: nel primo caso, la fonte sonora deve essere messa a circa trenta centimetri dall'orecchio, per un tempo massimo di mezz'ora; nel secondo caso, la distanza deve essere di uno o due metri dal letto del piccolo paziente. Durante questo intervento, il caregiver può proporre una particolare canzone o una ninna nanna specifica, registrandone anche la voce, in maniera tale che in sua assenza il bambino possa comunque ascoltare la stessa melodia.  In particolare, secondo la letteratura recente, è stato rilevato che nei neonati pretermine, sottoposti a trattamenti di musicoterapia (in particolare alla musica di Mozart), vi sono stati dei cambiamenti fisiologici/comportamentali, che hanno determinato dei benefici a breve e a lungo termine, quali: - riduzione della frequenza respiratoria; - miglioramento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna; - miglioramento generale della funzione cardiopolmonare, con riduzione del numero di eventi di apnea e bradicardia al giorno; - miglioramento della saturazione, anche se in maniera minore rispetto ai parametri precedenti; - miglioramento del riflesso di suzione non nutritiva, che aiuta il pretermine a sviluppare un approccio migliore alla nutrizione per via orale; - incremento dell'alimentazione e di conseguenza un incremento ponderale, inteso come aumento di peso giornaliero medio o come aumento di peso totale durante il periodo di intervento; - riduzione di un pianto inconsolabile e della condizione di stress generale; - riduzione rilevante del dispendio energetico a riposo; - schemi di sonno più maturi; - riduzione del dolore come risposta a diverse procedure invasive; - riduzione dell'ansia materna, associata dunque ad un miglioramento nello sviluppo del bambino durante i primi 2 anni di vita. (6) I benefici della musicoterapia nel paziente con disturbo di spettro autistico L'autismo è una sindrome comportamentale ben definita, appartenente al gruppo dei disturbi pervasivi dello sviluppo, che si instaura nel periodo dello sviluppo del SNC, generalmente entro i primi 3 anni di vita. Il concetto di spettro è un denominatore comune di natura genetica (anche se etiologia e patogenesi restano per la maggior parte dei casi sconosciute) che si esprime, a livello di manifestazioni psicopatologiche, in maniera differente da soggetto a soggetto. Precisamente, lo spettro, a livello di manifestazioni cliniche, ha una notevole variabilità individuale per il quale ogni soggetto manifesterà sintomi diversi, a seconda della predisposizione genetica e di quella ambientale. Juliette Alvin (1897- 1982) è stata un punto di riferimento nel panorama mondiale della musicoterapia, specialmente nel trattamento di bambini con disturbi dello spettro autistico. Nel suo libro "Music Therapy for the Autistic Child", descrive i risultati di uno studio, ottenuti in Gran Bretagna sulla musicoterapia come intervento di tipo non farmacologico, in cui una terapia a carattere musicale veniva applicata per un lungo periodo ad alcuni soggetti con autismo, affidati già a cure mediche ed educative. La musicista narra di come ogni bambino, affetto da questa sindrome, rappresenti un caso a sè e di come i risultati, ottenuti con ognuno di essi, siano differenti. Alvin ritiene che la musica sostenga l'espressione della creatività e possa aiutare i soggetti ad uscire dall'isolamento. (7) Anche altri studi hanno dimostrato che i bambini con questo tipo di disturbo mostrano una particolare attrazione verso la musica, in quanto, quest'ultima, favorisce loro uno stato di benessere e di calma: il bambino, che non riesce a comunicare verbalmente, riesce tramite la musica a veicolare le proprie emozioni e a comunicarle attraverso suoni e ritmi, allontanandosi, dunque, dalla propria condizione di isolamento sociale. Nel bambino con autismo ad alto funzionamento questo tipo di intervento, invece, serve ad organizzare e stimolare la comunicazione verbale che è già presente: in particolare, la musica stimola la reazione verbale e vocale e quindi, il desiderio di riprodurre la melodia e le parole con la propria voce. Risultati Gli interventi di musicoterapia, confrontati con una terapia standard o "placebo", hanno avuto degli effetti da moderati a grandi, soprattutto per quel che riguarda gli obiettivi primari; in particolare nel caso delle competenze comunicative primarie e dell'adattamento sociale. Le abilità comunicative non verbali hanno subito un notevole cambiamento, a differenza di quelle verbali, specialmente nei bambini con autismo a basso funzionamento. Inoltre è stato dimostrato che i bambini con autismo, a cui venivano applicati interventi di musicoterapia, riescono a relazionarsi meglio con gli altri, specialmente quando si impegnano in particolari routine. Conclusioni La musicoterapia, in quanto intervento di tipo non farmacologico, può essere considerata un metodo sicuro e, generalmente, ben accettato nell'assistenza sanitaria pediatrica, finalizzato ad alleviare i sintomi e migliorare la qualità della vita. Solitamente, questo tipo di approccio terapeutico è facile da implementare nelle pratiche cliniche, dettato anche dal fatto che i professionisti sanitari andranno a stilare un Piano Assistenziale Individualizzato (PAI). Tuttavia è importante notare che, per sfruttare in modo ottimale il potenziale della musicoterapia, sono indispensabili una formazione accademica e clinica specializzata e un'attenta selezione delle tecniche di intervento, capaci di soddisfare le esigenze individuali dei pazienti. Bibliografia, Sitografia [1] Wigram T, Pedersen IN, Bonde LO. A Comprehensive guide to music therapy - Theory, ClinicalPractice, Research and Training. London: Jessica Kingsley. Pubblishers 2002. [2] S. Centonze, P. Pistorio, Quale Musicoterapia? Fondamenti e applicazioni di una disciplina, tra musica e neuroscienze, Edizioni Circolo Virtuoso, Lecce 2017. [3] Musica e terapia.pdf. [4] Bieleninik L, Ghetti C, Gold C. Music Therapy for PretermInfants and TheriParents: A Meta-analysis. Pediatrics. 2016; 138(3):e20160971. [5] T. Stegemann, M. Geretsegger, E.P. Quoc, H. Riedl, M.Smentana, Music Therapy and Other Music-BasedInterventions in PediatricHealth Care: An Overview. Review, Medicines 2019, 6,25;doi:10.3390/medicines6010025, ww.mdpi.com/journal/medicines [6] Alvin, J. (1978). Music Therapy for the Acustic Child, Oxford University Press, London. (Trad. it., La terapia musicale per il ragazzo autistico. Roma: Armando Editore, 1981).
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Original article Cavò G1, Abrami S1, Falzone V1, Maisano KM1, Di Venti G2 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina 2UOS Professioni Sanitarie Infermieristica ed Ostetricia, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Gestione infermieristica del dolore in Pronto Soccorso Pediatrico
AbstractL'obiettivo di questo lavoro è riconoscere, gestire e alleviare le situazioni di dolore che un paziente pediatrico può causare durante il suo accesso nei luoghi di cura, ci occuperemo di quali sono gli strumenti più idonei riportati dalla letteratura infermieristica per riconoscere il dolore e misurarlo e quali sono le tecniche più innovative non farmacologiche per controllare e gestire il dolore nel paziente pediatrico. Metodo Revisione della letteratura per la scelta dei metodi più rapidi ed efficaci per la valutazione e gestione del dolore in pronto soccorso pediatrico, attraverso la ricerca di studi primari. " Il dolore è un'esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata ad un danno tissutale in atto, potenziale o percepito in termini di danno"... così lo definisce l'Associazione Internazionale per lo studio del dolore ( International Association for the study of Pain- IASP). Il dolore ha un'alta incidenza nella patologia pediatrica e la sua attenzione è un indicatore della qualità delle cure. Si stima che più dell'80% dei ricoveri, in ambiente ospedaliero pediatrico, sia dovuto a patologie che comportano anche dolore: in più del 50% dei casi compare come sintomo della patologia di base, nel caso di progressione della stessa è presente nell'80% dei bambini. Il controllo ed il trattamento del dolore sono un obiettivo centrale nella programmazione sanitaria nazionale e regionale. Per molti anni la comunità scientifica ha sostenuto teorie erronee sul dolore nel bambino, per esempio che il dolore non poteva essere misurato o che il neonato non percepisse il dolore, oggi molti studi dimostrano che già alla ventesima settimana di gestazione le vie di trasmissione del dolore sono già mature per cui sia il neonato a termine che pretermine accusano il dolore, inoltre oggi si dispone di un'ampia scelta di scale per la misurazione del dolore anche in età evolutiva. Il dolore, ormai considerato 5° parametro vitale, merita dunque di essere rilevato, valutato e gestito adeguatamente dall'equipe sanitaria preposta, all'interno della quale un ruolo fondamentale è rappresentato dall'infermiere e dall'infermiere pediatrico. Quest'ultimo, professionista della salute, come citato dal proprio codice deontologico all'Art, 34, capo IV:" si attiva per prevenire e contrastare il dolore e alleviare la sofferenza, si adopera affinché l'assistito riceva tutti i trattamenti necessari", per questo il libero utilizzo delle scale del dolore rappresenta uno strumento utile per il monitoraggio del benessere del paziente che resta al centro di ogni situazione. Scale di valutazione del dolore in età evolutiva Scala FLACC: (Faces, Legs, Activity, Cry, Consolability), è una scala di misurazione del dolore adatta ai pazienti che rientrano nella fascia d'età compresa tra 0 e 3 anni, si caratterizza per osservazione del comportamento del bambino, concentrandosi su volto, gambe, attività, pianto e consolabilità. Ognuna delle voci previste nella scala ha tre descrittori, a cui viene attribuito un punteggio compreso tra 0 e 2, generando un punteggio totale compreso tra 0 e 10. Questa scala di misurazione ha trovato ampia applicazione in ambito clinico grazie sia alla sua accuratezza che alla facile esecuzione: viene impiegata sul paziente che accede al pronto soccorso pediatrico, nel monitoraggio del dolore durante procedure diagnostico terapeutiche. 
Scala di Wong-Baker: è utile per i bambini dai 3/4 anni, è costituita da cinque facce, da quella sorridente corrispondente a "nessun male" a quella che piange, corrispondente a "tantissimo male", va somministrata al bambino chiedendogli di indicare "la faccia che corrisponde al male o al dolore che prova in quel momento".  ![]()
Scala verbale o VRS (Verbal Rating Scale): è utile per i bambini dai 8 anni in su, che sono in grado di descrivere il proprio dolore. Comprende una lista di descrittori che identificano il grado d'intensità del dolore. 
Metodi analgesici non farmacologici Impacchi a caldo sono utili principalmente per i dolori muscolari, a freddo invece sono indicati nella gestione del dolore da infiammazione dopo un trauma. E' inoltre stato osservato come, distrarre il bambino con vari mezzi, lo distolga dal pensiero costante de suo dolore e gli arrechi un minimo sollievo. Metodi di distrazione comuni sono ad esempio: musicoterapia, gioco, racconti, lettura, clown therapy, pet therapy, guardare la tv. La belonefobia nel bambino Le "punture" come il prelievo ematico, l'incannulamento di un accesso venoso, un'iniezione intramuscolare o la somministrazione di un vaccino, rappresentano in grande scala un momento critico per il bambino che deve essere sottoposto a procedure diagnostico-terapeutiche e molto spesso non accetta queste manovre, esistono a tal proposito mezzi e strumenti per gestire e contenere la paura e il dolore durante queste manovre. Riduzione del dolore in modo farmacologico e non farmacologico E' necessario definire i vari metodi di riduzione del dolore in base all'utilizzo di sostanze farmacologiche o di metodi fisici: l'impiego di anestetici locali (lidocaina, prilocaina, ecc.) induce una perdita della sensibilità nocicettiva agendo sui recettiori della zona in cui si andrà a pungere, ricorrere a metodi fisici, definiti anche non farmacologici, garantisce l'immediatezza nella ridotta conduzione degli impulsi dolorifici e previene possibili reazioni allergiche al farmaco anestetico. Crema anestetica L'anestetico locale meglio impiegato in ambiente pediatrico è sotto forma di crema, che esplica la sua azione farmacologica dopo l'assorbimento attraverso la cute. La crema anestetica più utilizzata è costituita da lidocaina al 2,5% e prilocaina al 2,5%. Dopo aver individuato il sito di puntura, è necessario applicare una dose generosa di crema, sempre in relazione al paziente che si ha d'avanti, ed effettuare un bendaggio occlusivo che ne permetterà il totale assorbimento. Il tempo d'azione della crema indicato è di circa 60 minuti, anche se diversi studi hanno dimostrato una miglior efficacia dopo 90 minuti dell'applicazione. 
Impacco di ghiaccio, spray refrigerante Nonostante nella vita quotidiana si ricorra all'impacco con ghiaccio per alleviare il dolore dovuto ad un trauma contusivo, questo può essere un valido metodo anche per prevenire il dolore da procedura. L'applicazione di una borsa di ghiaccio o di cubetti di ghiaccio avvolti in un panno per circa 3 minuti sul tratto di cute interessato, causa una transitoria diminuzione del tempo di conduzione delle vie nervose periferiche. Effetto analogo può realizzarsi con l'utilizzo di uno spray refrigerante, che agisce abbassando per circa un minuto la temperatura del tratto corporeo dove viene applicato, inducendo un rallentamento della conduzione nocicettiva. Entrambi i metodi agiscono bene sulla riduzione del dolore, sono di facile impiego da parte dell'operatore sanitario e hanno un tempo d'azione molto breve, elementi fondamentali che riducono l'agitazione generata dall'attesa della procedura. Dispositivo Buzzy "Buzzy può volare in aiuto di bambini in tantissime situazioni diverse: ovunque ci sia l'impiego di un ago, ma non solo!"; così recita il sito di vendita, Buzzy è un dispositivo medico chirurgico che combina l'azione di una componente vibrante a quella del freddo, per inibire la nocicezione seguendo il principio della Gate Control Theory. Buzzy si configura come un ape dove il corpo dell'animale genera la vibrazione mentre le ali, riposte prima nel congelatore, esplicano l'azione del freddo, è uno strumento di facile impiego con una resa immediata: dopo aver inserito le ali congelate al retro del corpo dell'ape, va posizionato poco al di sopra della zona dove avverrà la venipuntura, per circa 60 secondi, successivamente viene spostato di qualche centimetro in alto o lateralmente rispetto al sito di inserimento dell'ago.Lo slogan usato per pubblicizzare questo metodo di riduzione del dolore è: "drug free pain relief" ovvero "sollievo dal dolore senza farmaci", gli effetti collaterali sono ridotti al minimo, il paziente vive in modo sereno un momento tra i più difficili da affrontare. Buzzy per l'infermiere in area pediatrica risulta essere il valido alleato per costruire insieme al paziente un setting di tranquillità, risparmiando una notevole quantità di tempo per quel che riguarda la preparazione del bambino e dei genitori. Può essere utilizzato in pazienti di qualsiasi età, con l'unico riguardo verso chi ha particolare sensibilità al freddo da sindrome di Raynard (in questo caso può essere utilizzato eliminando la parte fredda). Buzzy può essere utilizzato non solo per la prevenzione del dolore da venipuntura, ma anche per tutte quelle condizioni che causano dolore acuto nel bambino, applicandolo tra "cervello e dolore", sfruttando l'azione sulle vie discendenti e sul sistema di controllo inibitorio nocivo diffuso (DNIC).
La letteratura scientifica in merito all'efficacia di Buzzy diventa sempre più corposa e tutt'ora non sono stati riscontrati risultati negativi dall'utilizzo del dispositivo, né che questo complicasse la realizzazione della venipuntura. 
Il dispositivo Buzzy trova riscontri positivi in molti articoli pubblicati su riviste specializzate (6-11), inoltre studi pubblicati su PubMed dimostrano l'efficacia combinata dal freddo/vibrazioni, come metodo per ridurre lo stress e il dolore nel bambino (6). Conclusioni L'attenzione e la cura nel riconoscimento, nella misurazione e nella gestione del dolore rappresenta per gli infermieri e infermieri pediatrici una sfida attuale nel contesto quotidiano sul quale operano, oggi conosciamo e abbiamo gli strumenti sufficienti per la gestione autonoma del dolore, che possono cambiare profondamente l'approccio e l'esperienza del bambino ospedalizzato, abbiamo analizzato i diversi metodi di prevenzione del dolore, come le scale per il monitoraggio e la valutazione del dolore, nonché le tecniche per la sua gestione, riteniamo che un dispositivo che sfrutta il sistema combinato freddo/vibrazioni, ampiamente supportato dalla letteratura scientifica, abbinato alle scale di valutazione e gestione del dolore, possano essere gli strumenti migliori ed innovativi per rendere più semplice l'approccio al dolore, sia per i bambini che per il personale sanitario, garantendo sempre più attenzione alla sfera emotiva del paziente pediatrico e della sua famiglia, ponendoli al centro della nostra assistenza. Bibliografia/sitografia1. Nurse Times, il dolore nel bambino: valutazione infermieristica del dolore pediatrico
2. Arianna De Matteis, Roberta Romano, Michele Lafusco; L'utilizzo della scala FLACC per il dolore acuto in Pronto Soccorso, Simeup 3. L. Katra; scala di Wong Baker: strumento di valutazione del dolore; Assocarenews.it 4. T. Buttiron Weber, gestione del dolore: le scale validate e più utilizzate (2019)
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