Rivista Italiana di Genetica e Immunologia Pediatrica Italian Journal of Genetic and Pediatric Immunology Quadrimestrale di aggiornamento scientifico dell'Euromediterranean Paediatric Foundation
Esistono poi gli "Errori attivi" Per quanto riguarda gli errori attivi essi sono quelli pi๠facilmente individuabili in quanto fattori scatenanti dell'incidente. Si collocano a livello di persone e quindi il loro riscontro coincide spesso con l'identificazione di una responsabilità individuale. Le organizzazioni possiedono dei âsistemi di difesaâ che mirano proprio ad impedire il verificarsi degli incidenti.
Concentrando l'attenzione sugli incidenti in età pediatrica, secondo un'indagine effettuata dal National Health Service inglese , essi costituiscono il 6, 7 % di tutti gli incidenti segnalati. Secondo le stime emerse da tale studio, solo una piccola percentuale pari al 7%, si ਠverificata entro le mura domestiche o in strutture socio-sanitarie. Una percentuale molto pi๠ampia si ਠverificata in reparti di area critica, mentre il 10% si ਠverificata in ambito psichiatrico. Fortunatamente la maggior parte degli incidenti che coinvolgono neonati e bambini, non produce danni al paziente o, in molti casi, provoca danni di piccola entità . Gli errori statisticamente pi๠rappresentati variano a seconda della fascia d'età . Il 10% degli errori di terapia riguarda bambini tra 0 e 4 anni Pi๠frequenti per l'età pediatrica sono gli errori di terapia (17%), gli errori di trattamento o di procedura (13%) e gli errori di persona. Per i neonati sono pi๠frequenti gli errori di trattamento o di procedura (17%), gli errori di terapia (15%) e gli errori relativi all'accettazione, ai trasferimenti ed alla dimissione (14%). Alle origini degli eventi avversi ci sono molte possibili cause: la stanchezza dell'operatore, i difetti nella comunicazione tra le figure professionali (ad esempio una prescrizione illeggibile) o tra gli operatori ed il paziente, la mancanza di informazioni, la carenza di personale, il confezionamento dei farmaci (ad es. etichette quasi uguali per farmaci molto diversi), l'inidoneità di locali ed attrezzature, l'insufficiente addestramento. I bambini peraltro sono 3 volte pi๠esposti rispetto agli adulti ad errori terapeutici potenzialmente pericolosi.
Per ovviare a questi problemi si potrebbe intervenire tramite manovre preventive che prevedono ad esempio, tra le abitudini mediche, ad inserire nelle prescrizioni peso ed eventuali allergie del paziente, ad abolire abbreviazioni ed indicazioni generiche o quantomeno standardizzarle. Altra mossa preventiva sarebbe quella di attivare la prescrizione medica computerizzata con software che supporta le decisioni cliniche (rischi allergici, dosi, frequenza di somministrazione).
Andando ad indagare quali siano gli elementi che permettono ai bambini ed alle loro famiglie di sentirsi oggetto di cure sicure, sono emersi i seguenti dati: il linguaggio usato dal personale socio-sanitario ਠun elemento fondamentale nel rassicurare i giovani pazienti. Parlare al bambino con un linguaggio adeguato all'età e fornirgli spiegazioni complete ed esaurienti circa la diagnosi, il percorso terapeutico ed i trattamenti farmacologici a cui verrà sottoposto gli permette di sentirsi sicuro dell'efficacia delle cure. Le famiglie straniere necessiterebbero dell'effetto rassicurante di ricevere le informazioni circa la salute del bambino nella propria lingua. I genitori spesso non si sentono ascoltati dai professionisti sanitari quando hanno esposto le condizioni cliniche del figlio o l'aggravarsi della patologia di base; in queste circostanze i genitori potrebbero ritenere che i provvedimenti presi dai medici e dagli altri professionisti siano insufficienti o inadeguati. Di fondamentale importanza per evitare rischi clinici, si indicano ancora la sicurezza dell'ambiente ed il percepire che i professionisti sanitari sono vigili nel prevenire situazioni pericolose. Merita menzione il consenso informato, cardine della gestione del rischio clinico, non tanto nella consueta chiave di lettura giuridica (validità del consenso in relazione all'età , alle condizioni psicofisiche ecc.), quanto come fondamentale processo di comunicazione, nel quale il medico si gioca ampia parte della fiducia del paziente. Ciಠha notevole importanza nel prevenire azioni rivendicative, soprattutto allorquando si verifica un evento avverso. Per superare le criticità relative al momento della dimissione si dovrebbe evitare di fornire informazioni parziali, frettolose, scarsamente comprensibili, circa l'assistenza domiciliare e l'eventuale prosieguo delle cure, tenendo anche conto di quelle minoranze etniche da cui ci separano barriere linguistiche e culturali. à necessario quindi promuovere un atteggiamento attivo molto ampio, di vasti orizzonti, nella ricerca delle possibili fonti di eventi avversi per migliorare ulteriormente la sicurezza dei pazienti in età pediatrica. Il messaggio saliente che vorremmo emergesse ਠche tutte le figure professionali devono impegnarsi per evitare che si verifichino delle condizioni potenzialmente lesive per il paziente. Il medico, l'infermiere o il manager della sanità , ma anche il biologo o il farmacista sono chiamati, a livelli diversi, a prendere decisioni che possono generare criticità ed innescare conflitti. Essi sono impegnati in una continua gestione di contrasti, in cui appare preponderante il saper generare consenso piuttosto che avere potere decisionale. Per creare consenso ਠnecessario riconoscere, comprendere e neutralizzare gli eventi e le percezioni che possono generare il conflitto, o aggravarlo, rendendolo difficilmente gestibile. Il conflitto puಠessere utilmente evitato o governato attraverso l'utilizzo di tecniche di negoziazione relazionale, idonee a ridurre la criticità . Proprio la riduzione della criticità , e degli eventi a essa connessi, determina la diminuzione del danno iatrogeno, delle sofferenze inutili e delle morti evitabili che significativamente occorrono nella cura della salute. La negoziazione relazionale quindi ਠl'unica metodica capace di ridurre il rischio clinico creando valore: gestionale, economico, umano. Dalla possibilità di sviluppo di errore non ਠscevra la ricerca intesa come un'attività che si basa su regole precise che consentono di arrivare, attraverso percorsi ben definiti, a un risultato concreto, oggettivo e riproducibile: in poche parole si basa sul metodo scientifico, lo stesso introdotto nel XVI-XVII secolo da Galileo Galilei, considerato il padre della scienza moderna. Questi concetti risultano calzanti anche per la ricerca applicata o translazionale o, come si usa dire recentemente di ricerca " from bench to bedside", âdal bancone di laboratorio al letto del paziente". In realtà questo rapporto ਠbidirezionale: se da un lato il paziente, soprattutto quello con malattia rara su base genetica, ci insegna a comprendere meglio i meccanismi di funzionamento del nostro organismo (from bedside to bench), dall'altro le conoscenze che acquisiamo possono essere utilizzate per migliorare la diagnostica e la cura dei pazienti (from bench to bedside). Si tratta, in altre parole, di costruire una sorta di ponte tra la scienza e la medicina, per poter utilizzare nel modo migliore le scoperte dei ricercatori, un ponte che sia a due sensi di marcia. Il percorso tradizionale prevede che le informazioni che arrivano dal laboratorio vengano tradotte in strumenti utili da applicare al letto del paziente, cioਠalla pratica clinica di tutti i giorni, ma non ਠraro che da informazioni che arrivano dall'osservazione dei pazienti i ricercatori colgano spunti per nuovi esperimenti in laboratorio. Il concetto non ਠnuovo, ma ha assunto un significato molto diverso negli ultimi anni: fin dalla metà del secolo scorso esisteva uno stretto legame tra ricerca di base e medicina, ma oggi le due discipline viaggiano a velocità molto diverse. La ricerca di base ਠincredibilmente veloce, produce risultati a ritmi molto rapidi, mentre i tempi per portare questi risultati al letto del paziente sono molto lunghi e spesso accade che le enormi possibilità nella diagnosi o nella terapia suggerite dalla scienza non possano essere sfruttate fino in fondo dai medici che si confrontano ogni giorno con i pazienti.
Serve dunque che il medico diventi un esperto capace di tradurre in pratica le scoperte della scienza, cercando le strategie migliori per poter utilizzare âsul letto del pazienteâ l'ultima scoperta nel campo della genetica o della biologia molecolare. Ed ਠper questo che nei laboratori pi๠avanzati nascono centri specifici di ricerca traslazionale presso i quali lavorano persone capaci di camminare in equilibrio tra i due ambiti: si tratta di ricercatori che conoscono la ricerca di base, ma che hanno anche un'attenzione particolare per il paziente e una grande capacità di comprendere le necessità di chi si prende cura dei malati ogni giorno nella pratica clinica. Ci auguriamo quindi che , con animo umile, sensibile ed attento, possiamo crescere in questa nuova realtà , con questi nuovi orizzonti, tutelando i nostri pazienti, tutelando al tempo stesso la nostra professionalità .
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Anno III numero 2 - aprile 2011 | direttore scientifico: Carmelo Salpietro - direttore responsabile: Giuseppe Micali
Telemedicina con le punte delle dita
Giuseppe Micali
Funzionano con una rete Wifi o con una mini-SIM card, consentono l'accesso ad internet scegliendo un piano tariffario dai pi๠famosi gestori di telefonia mobile e sono divenuti uno strumento di utilità collettiva. Sono l'iPhone e l'iPad e si stanno utilizzando sempre pi๠come strumenti per il medico per comunicare in tempo reale e fornire l'assistenza clinica necessaria in emergenza. à, percià², possibile effettuare una visita medica a distanza grazie al software FaceTime, che consente la videochiamata in modo semplice ed istantaneo. Il primo progetto sperimentale di telemedicina con il tablet iPad si sta svolgendo all'Ospedale Niguarda di Milano e al Policlinico Gemelli di Roma dove i medici possono accedere, ovunque si trovino, alla consultazione della cartella clinica elettronica, agli esami diagnostici e alle immagini radiologiche del paziente. Inoltre, un sistema di prevenzione sanitaria, "Healthpresence" consentirà al medico di visitare un paziente a distanza. Siamo arrivati alla telemedicina con le punte delle dita, in grado di ascoltare il battito di un cuore o di misurare la pressione in tempo reale e ci siamo anche accorti che la fantascienza ਠappena incominciata. Adesso ਠmeglio far parlare i links.
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Anno III numero 2 - aprile 2011 | direttore scientifico: Carmelo Salpietro - direttore responsabile: Giuseppe Micali
La cute come organo immune Skin as immune organ
G. L. Marseglia, A. Licari Dipartimento di Scienze Pediatriche e Patologia Umana ed Ereditaria, Università degli Studi di Pavia, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo Pavia
La cute presenta numerose attività funzionali. Una delle pi๠importanti ਠla funzione di barriera di protezione nei confronti dell'ambiente esterno, garantita dai cheratinociti epidermici; il loro continuo turn-over cellulare assicura il mantenimento dell'integrità dell'epidermide e costituisce un efficiente ostacolo in grado di limitare anche la perdita di acqua e di elettroliti verso l'esterno. La presenza dei melanociti epidermici assicura la funzione di difesa nei confronti delle radiazioni ultraviolette (UV) ; la matrice extracellulare del derma conferisce l'attività di tensione elastica; inoltre la cute costituisce l'organo effettore principale del mantenimento dell'omeostasi termica e dell'equilibrio idro-elettrolitico; infine, attraverso la rete delle terminazioni nervose, consente le fondamentali attività sensoriale, conoscitiva e di comunicazione. Recentemente ਠstata definita una nuova attività funzionale, cioਠquella immunologica. La sorveglianza di un organo di cosଠgrandi dimensioni e cosଠesposto all'ambiente rappresenta una sfida unica per le cellule sentinelle ed effettrici del sistema immune. La cute, infatti, puಠdare inizio a risposte infiammatorie e immunitarie verso sostanze potenzialmente nocive che vengono a contatto con essa per penetrazione dall'esterno (proteine batteriche, micetiche, virali, apteni) o per diffusione ematogena da altri distretti dell'organismo o formatisi al suo interno (prodotti del metabolismo di alcuni farmaci). I principali protagonisti di questo scenario sono i cheratinociti, le cellule di Langerhans, le cellule dendritiche cutanee, i linfociti cutanei, i mastociti e le cellule endoteliali (Fig.1) ; queste popolazioni cellulari, tra loro integrate e correlate nel cosiddetto âsistema immunitario cutaneoâ, possono esercitare effetti biologici non solo a livello cutaneo ma anche a distanza. I cheratinociti, che costituiscono la popolazione cellulare epidermica numericamente pi๠rappresentata, sono in grado non solo di sintetizzare i principali costituenti molecolari della barriera epidermica, ma anche di intervenire attivamente nella regolazione delle reazioni infiammatorie immunomediate della cute: possono infatti esprimere molecole MHC di I classe e, in particolari condizioni di attivazione, anche molecole di II classe e alcune molecole di adesione come LFA-3 (Leukocyte Functional Antigen 3) e ICAM-1 (Intercellular Adhesione molecule 1) che interagendo con i loro ligandi naturali sui leucociti e producendo una moltitudine di chemochine, fattori di crescita e citochine richiamano nell'epidermide cellule dendritiche, linfociti T e altri leucociti; possono liberare fattori in grado di modulare la funzione delle cellule di Langerhans, oltre che l'accumulo, la sopravvivenza e l'attivazione di linfociti T nella cute; esprimono inoltre sulla loro membrana i TLR (Toll-Like Receptors), soprattutto di tipo 1, 2 e 5 che hanno un ruolo determinante nell'immunità innata in quanto, essendo in grado di riconoscere sequenze specifiche espresse dalla maggior parte dei microrganismi patogeni, attivano la produzione di peptidi antimicrobici (tra cui beta-defensine 1-3 e catelecidine LL-37) e di citochine e chemochine, come IL-8, considerata il pi๠potente fattore chemotattico per i granulociti neutrofili. Da queste considerazioni emerge quindi l'importanza del ruolo dei cheratinociti come âsensori del pericoloâ in grado di discriminare tra organismi innocui e agenti patogeni dannosi e successivamente di attivare la risposta immunitaria attraverso diversi sistemi di allarme, ad esempio attraverso l'espressione dei TLR o attraverso il complesso proteico dell'inflammasoma (Fig.2). Le cellule dendritiche svolgono il ruolo chiave di âsentinellaâ essendo strategicamente posizionate in distinti compartimenti anatomici cutanei; ciascun tipo cellulare possiede inoltre specifiche proprietà funzionali, come ad esempio la secrezione di mediatori pro-infiammatori, la produzione di IFN-1 o la presentazione dell'antigene. Le cellule dendritiche della cute e le cellule di Langerhans hanno una funzione essenziale nell'induzione delle risposte immunitarie primarie, essendo in grado di presentare l'antigene ai linfociti T e di attivare quindi la risposta linfocitaria nei confronti sia di neo-antigeni cutanei che di antigeni già riconosciuti, inibire una risposta immune parzialmente dannosa nei confronti di antigeni cutanei non pericolosi e attivare l'immunità naturale attraverso l'interazione tra peptidi microbici e TLR (Fig.3). Nella cute umana normale sono presenti numerosi linfociti che appartengono prevalentemente al fenotipo T (linfociti T cute-specifici) e sono localizzati soprattutto in sede perivascolare nel derma (98%) e solo in piccola quantità nell'epidermide (2%) ; la caratterizzazione immunofenotipica di queste cellule ha permesso di rilevare che la maggior parte di esse sono da considerarsi cellule memoria. Di recente identificazione ਠla presenza della linea cellulare T effettrice Th17 presente anche a livello cutaneo; questa popolazione cellulare, distinta dai sottotipi Th1 e Th2, ਠresponsabile della produzione di citochine infiammatorie (IL-17A, IL-17F, IL-22, e IL-26) coinvolte in diversi modelli di malattie autoimmuni, come la sclerosi multipla, l'artrite reumatoide, le malattie infiammatorie croniche intestinali e la psoriasi, cosଠcome nella risposta immune ai patogeni extracellulari (es. C. albicans, M. tuberculosis). Le cellule Th17 hanno inoltre un ruolo nella patogenesi di alcune malattie allergiche; recentemente ਠstata dimostrata la presenza dei Th17 e dell'IL-17 nei pazienti con dermatite atopica: la polarizzazione Th17 indotta dagli eosinofili sosterrebbe non solo la fase acuta della malattia ma sarebbe necessaria per il passaggio alla fase cronica, attraverso l'attivazione dei processi di rimodellamento cutaneo stimolati da citochine proinfiammatorie come IL-8, IL-6, e IL-11. Recenti evidenze hanno messo in luce una nuova popolazione di linfociti T, definiti ânon convenzionaliâ e rappresentati dalle cellule Tγδ e dalle cellule iNKT, che sembrano entrambe coinvolte nei processi di immunosorveglianza cutanea, essendo in grado di esercitare attività citolitica ed apoptosica diretta nei confronti di cellule infette o trasformate. Inoltre le cellule Tγδ ï producono fattori di crescita indispensabili per la guarigione delle ferite (Fig.4). Le cellule iNKT sono state inoltre nella patogenesi dell'asma; controverso ਠinvece il loro ruolo nella patogenesi della dermatite atopica in cui sembrerebbero giocare un ruolo essenziale nella risposta immune allergica innata: in particolare, la loro presenza sembrerebbe correlare con la gravità delle lesioni cutanee caratteristiche della malattia. I mastociti, dislocati prevalentemente in sede perivascolare, svolgono un ruolo altrettanto rilevante nella regolazione delle reazioni immunoflogistiche acute e croniche; essi, infatti, contengono nei loro granuli citochine preformate in grado di attivare le cellule endoteliali e di modulare la differenziazione dei linfociti T. Inoltre, una volta attivati, i mastociti sintetizzano chemochine e citochine che promuovono il reclutamento e l'attivazione di vari leucociti; infine, essi contraggono stretti rapporti anatomici e funzionali con le terminazioni nervose peptidergiche che, oltre a veicolare informazioni nocicettive, sono in grado di rilasciare perifericamente peptidi neuroregolatori (sostanza P, VIP, CGRP ovvero calcitonin gene-related peptide) con importanti funzioni nell'induzione e regolazione della flogosi. Le cellule endoteliali, che rivestono la superficie interna dei vasi dermici, sono provviste di numerose attività biologiche, le pi๠importanti delle quali sono la sintesi e la secrezione all'esterno di numerose molecole: componenti della matrice extracellulare, fattori della coagulazione, sostanze ad attività vasodilatante, fattori di crescita e mitogeni cellulari, citochine, chemochine e molecole di adesione; in condizioni di attivazione, inoltre, esse sono in grado di esprimere sulla loro membrana molecole di classe II e recettori per chemochine, per l'Fc delle IgG e per il C3 del complemento. Le cellule endoteliali, infine, costituiscono una barriera selettiva in grado di regolare il traffico cellulare tra torrente circolatorio e tessuti attraverso l'espressione sulla loro superficie di numerosi recettori, come quelli che possono riconoscere gli homing receptors dei linfociti, oppure le molecole di adesione presenti sulla membrana dei granulociti e dei monociti. In conclusione, le varie popolazioni cellulari che compongono il sistema immunitario cutaneo costituiscono una vera e propria unità integrata e interattiva, che da un lato mette in relazione l'organismo con l'ambiente esterno e dall'altro deve fornire una protezione adeguata nei confronti di agenti ambientali potenzialmente dannosi. Un'alterazione persistente, per motivi genetici e/o acquisiti, della regolazione reciproca di tali componenti ਠalla base di diverse patologie della cute che trovano estrinsecazione anche in età pediatrica.
Figura 1 - Anatomia della cute ed effettori cellulari, modificata da Nestle, 2009 La struttura della cute riflette la complessità delle sue molteplici funzioni: essa svolge infatti il ruolo di barriera protettiva, ਠcoinvolta nel mantenimento della temperatura corporea, nel raccogliere e trasmettere informazioni relative all'ambiente esterno e ha un ruolo attivo nel sistema immune. L'epidermide contiene lo strato basale, lo strato spinoso, lo stato granuloso e lo strato corneo, che ਠresponsabile della funzione di barriera della cute. Le cellule specializzate dell'epidermide sono rappresentate dai melanociti e dalle cellule di Langerhans. Qualche cellula T, principalmente linfociti T CD8+ citotossici, ਠpresente nello strato basale e nello strato spinoso. Il derma ਠcomposto da collagene, fibre elastiche e fibre reticolari e contiene molte cellule specializzate, come le cellule dendritiche (DC) nei vari sottotipi, incluse le DC dermiche e le DC plasmocitoidi (pDC), e i linfociti T, compresi i T helper CD4+ (Th1), Th2 e Th17, le cellule Tγδ e le iNK T (invariant NK T). Sono inoltre presenti macrofagi, mastociti e fibroblasti. I vasi sanguigni e linfatici e le fibre nervose sono inoltre presenti in tutto il derma.
Figura 2 - Cheratinociti come sensori del pericolo, modificata da Nestle, 2009 I cheratinociti svolgono il ruolo di âsensori del pericoloâ in quanto in grado di riconoscere agenti esterni e potenzialmente dannosi (come ad esempio il Lipopolisaccaride (LPS) batterico, le tossine, gli irritanti e i raggi UV) attraverso i Toll-Like Receptors (TLRs) e il complesso dell'inflammosoma. I TLRs sono recettori transmembranari presenti sulla superficie cellulare o sulla superficie del compartimento endosomiale. Il LPS stimola il TLR4; le lipoproteine batteriche e lo zymosan fungino i complessi eterodimerici formati da TLR1-TLR2 e TLR2-TLR6; la flagellina batterica attiva il TLR5; le triplette CpG non metilate presenti nel DNA funzionano come stimolatori del TLR9 endosomiale; la doppia elica RNA (dsRNA) attiva il TLR3 endosomiale; la singola elica RNA (ssRNA) attiva il TLR7. Il riconoscimento di agenti esterni attiva un meccanismo che attraverso l'attivazione di segnali cellulari culmina nella risposta immune innata ed adattativa con produzione di peptidi antimicrobici, citochine e chemochine. I cheratinociti inoltre esprimono la proteina NLRP3, che appartiene alla classe NLR (nucleotide-binding domain, leucine-rich repeat-containing), di recente identificazione , che sarebbe in grado di attivare una risposta nei confronti degli agenti esterni a livello citoplasmatico e di attivare il complesso dell'inflammosoma. Quest'ultimo rappresenta un complesso multimerico formato da una proteina NLR, da una proteina adattatrice chiamata ASC (apoptosis-associated speck-like protein) e dalla pro-caspasi 1; la sua attivazione termina nella produzione di caspasi 1 , che trasforma a sua volta a pro-IL-1ï¢ in IL-1ï¢ï biologicamente attiva.
Figura 3 - Cellule dendritiche e macrofagi, modificata da Nestle, 2009 Le cellule dendritiche (CD) cutanee possono essere classificate in base alla loro localizzazione in distinti compartimenti anatomici: le cellule di Langerhans sono il sottotipo cellulare maggiormente rappresentato nell'epidermide, dove sono costitutivamente residenti insieme ai cheratinociti; le cellule dendritiche dermiche risiedono immediatamente al di sotto della giunzione dermo-epidermica e in tutto il compartimento dermico. In base alla loro localizzazione anatomica, i diversi tipi cellulari hanno specifiche prorpietà funzionali, come la secrezione di citochine pro-infiammatorie (da parte delle CD infiammatorie), di IFN-1 (da parte delle CD plasmocitoidi) o la presentazione dell'antigene a livello cutaneo.
Figura 4 - Cellule T non convenzionali, modificata da Nestle, 2009 I linfociti T non convenzionali, come le cellule γδ T e le iNKT (invariant natural killer T) sono coinvolte nell'immunosorveglianza cutanea. Entrambi i tipi cellulari hanno proprietà citolitiche e rilasciano granzyma B e perforina e causano apoptosi di cellule infette o trasformate. Esse sono in grado di attivare le cellule dendritiche attraverso la produzione di TNF e IFN-γ. In pi๠le cellule γδ T producono fattori di crescita che sono essenziali per la riparazione delle ferite , come il fattore di crescita del tessuto connettivo (CTGF), il fattore di crescita dei 9 (FGF9) e il fattore di crescita dei cheratinociti (KGF). Infine, entrambi i tipi cellulari, Tγδ e iNKT, producono citochine che sono di solito associati ai fenotipi T helper 1 (TH1), TH2 e TH17.
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Immunogenetic classification of immune mediated disease
Tradotto e curato da: Sara Manti, Valeria Ferraà¹, Donatella Comito, Claudio Romano Dipartimento Scienze Pediatriche, UOC Genetica ed Immunologia Pediatrica, Università di Messina
Non trascurabile ਠla componente immunologica-ambientale. Ruolo chiave sembra essere svolto dalla flora batterica, che risente fortemente di disregolazioni geniche, ma anche di fattori ambientali come il tipo di alimentazione, additivi, stress, fumo, sostanze chimiche (farmaci: FANS). Sembra che una condizione di disbiosi intesa come alterazione della composizione del microbiota possa essere considerato un primum movens nella genesi di una alterata risposta immune a livello intestinale. Nel soggetto normale, infatti, il microbiota ਠcostituito da Bacteroidetes, Firmicutes e Clostridiales; questi componenti sono presenti in quantità ridotta sulla superfice mucosale in un soggetto con IBD, ove invece prevalgono Firmicutes Bacillus, Proteobacteria ed Actinobacteria.
Numerosi sono i geni candidati al determinismo delle IBD. I cromosomi su cui mappano sono 1 (TNF-R, HSPG2, UBE1L, TGF-β2, TGF-β4, E2G), 3 (CCR5, GNAI2, hMLH1, IL12A) , 4 (IL-2), 5 (CSF-2, IL3-5.2), 6 (HLA I-III, MICA, NFκB, IFN-γ R), 7 (MUC 3, EGFR, HGF) , 10 (β1-integrin), 12 (MUC 3, EGFR, HGF), 14 (TCR α and δ, Proteasome cluster, Leucotriene B4R) , 16 (IL-4R, CD10, CD11, E-caderina) , 19 (ICAM1, C3, TBXA2, LTB4H). Le analisi di associazione genetica, tramite lo studio del genoma completo, hanno identificato numerosi loci di suscettibilità , designati con le sigle da IBD1 a IBD6, rispettivamente sui cromosomi 16, 12, 6, 14, 5 e 19. Il locus IBD1, che ha mostrato la maggiore associazione, viene denominato NOD2/CARD15. Mentre il possesso di una copia dell'allele determina un piccolo aumento del rischio di sviluppare il MC (da 2 a 4 volte), il possesso di 2 copie (in omozigosi o eterozigosi composta) lo aumenta di 20-40 volte. Queste varianti genetiche alterano l'attivazione del fattore nucleare NF-kb intestinale in risposta ai lipopolisaccaridi e ai peptidoglicani batterici. Altri loci IBD possono codificare per il gene della resistenza multi-farmaco e per i cluster dei geni trasportatori di cationi organici. Solo il 20% di pazienti con MC ਠomozigote per le varianti di NOD2. Il possesso degli alleli a rischio NOD2/CARD15 ਠassociato con i fenotipi ileale e stenosante. Questi geni sono rari nei pazienti afroamericani, mentre sono presenti nel 40-50% dei pazienti caucasici. Grazie al GWAS, un ampio studio di associazione sul genoma, noto anche come complesso studio di associazione sull'intero genoma (studio WGA, o WGAS) ਠstato effettuato l'esame di tutti o la maggior parte dei geni di diversi individui per valutarne il grado di espressività . Il genoma umano contiene molti milioni di polimorfismi a singolo nucleotide, e altre migliaia di variazioni nel numero di copie di piccoli e grandi segmenti del genoma, che possono causare cambiamenti del fenotipo ed influenzare le variazioni individuali e la suscettibilità alle malattie. Studi GWAS consentono ai ricercatori di analizzare campioni di 500.000 o pi๠SNPs per ogni soggetto. Ad oggi, questi studi, hanno identificato ben >30 fattori di rischio e mappato i geni coinvolti nell'insorgenza delle IBD in età pediatrica ed adulta. Le mutazioni geniche recentemente individuate sono le seguenti: - 5p13.1 crom.: modula l'azione del PTGER4, proteina appartenente alla famiglia dei recettori accoppiati alla G-proteina. Trattasi di uno dei quattro recettori individuati per prostaglandina E2 (PGE2). Essa funge da segnale di attivazione dei linfociti T; influenza l'espressione di PGE2 e la rapida crescita cellulare in risposta all'EGR1; regola il livello e la stabilità della cicloossigenasi-2 mRNA; porta alla fosforilazione della glicogeno-sintasi/chinasi-3. - à stato ipotizzato che la stratificazione delle IBD in base all'età di esordio potrebbe identificare geni aggiuntivi associati con la flogosi intestinale. A tal fine, ਠstata effettuata un'analisi GWAS in una coorte di 1.011 individui con malattia infiammatoria intestinale ad esordio pediatrico e confrontati con 4.250 controlli. Sono stati cosଠidentificati e replicati geni significativamente associati, non noti in precedenza, sui loci dei cromosomi 20q13 e 21q22, situati, rispettivamente, vicino al TNFRSF6B e PSMG1. - SMAD3: fattore trascrizionale che regola l'espressione del TGF-β, a sua volta coinvolto nell'induzione di FOXp3. La carenza di SMAD3e/o la sua ridotta fosforilazione inducono una differenziazione dei T-naive in senso Th17 con una maggiore predisposizione allo sviluppo di malattie autoimmuni. - TNFSF11 (RANKL) : coinvolto nell'attivazione dell' NF-kb, stimola le cellule dendritiche, la proliferazione dei linfociti T-naive e loro differenziazione in Treg. I valori di tale fattore trascrizionale sono aumentati nel plasma di pazienti affetti da MC. - IL10RA IL10RB: lo studio ਠpartito da un'analisi dei collegamenti genetici e del sequenziamento genomico di due famiglie di soggetti con bambini affetti da malattie infiammatorie intestinali. Da questi studi ਠemerso che in quattro pazienti su nove con una colite precoce sono stati identificati tre distinti mutazioni omozigotiche nei geni IL10RA e IL10RB, che codificano rispettivamente per IL10R1e IL10R2. Queste stesse proteine sono responsabili della formazione del recettore interluchina-10. Di conseguenza, i segnali di quest'ultima vengono inibiti inducendo un'aumentata secrezione di fattori di necrosi tumorale e altre citochine pro-infiammatorie: l'intero sistema immunitario risulta alterato. - NCF4: la proteina codificata da questo gene ਠun componente citosolico necessario per la produzione, da parte dei fagociti, di NADPH-ossidasi, enzima importante per la difesa ospite. Questa proteina ਠpreferenzialmente espressa nelle cellule della linea mieloide. Interagisce principalmente con NCF2/p67-phox per formare un complesso con NCF1/p47-phox ed G-RAC1. Questo complesso attiva quindi il β-flavocitocromo, centro integrato di membrana catalitica del sistema enzimatico. Il dominio PX di questa proteina puಠlegare i prodotti fosfolipidi della 3-PI-chinasi. La fosforilazione di questa proteina regola negativamente l'attività dell'enzima. Le mutazioni individuate a carico di tale gene predispongono allo sviluppo di febbre, diarrea, dolori addominale, eczema, sinusite, croup e colite granulomatosa. Studi associati-Genoma (GWAS) hanno identificato un numero rapidamente crescente di varianti genetiche, circa 80, potenzialmente associabili al rischio di IBD. Questi dati recenti ultime potrebbero fornire, inoltre, la possibilità di studiare meccanismi predisponenti la malattia ed individualizzare un adeguato approccio terapeutico. I risultati hanno evidenziato l'importanza della relazione tra la risposta ai microbi intracellulari (autofagia, fagocitosi, funzione di barriera) ed immunità innata e adattativa (cellule Th17, T-reg) nella patogenesi delle IBD. Con i rapidi progressi nella genetica umana, ਠdiventato chiaro che una delle principali sfide per lo studio dei caratteri genetici ਠquello di determinare come i geni della malattia e dei loro alleli corrispondenti esercitino la loro influenza sulla biologia di salute e malattia, e come applicare la biologia al fine di prevenire la malattia stessa. à altresଠvero che terapie pi๠efficaci (comprese immunomodulatori e biologici), sono stati sempre pi๠utilizzate per il trattamento di pazienti con IBD. Recentemente, il concetto di "top down" nell'approccio terapeutico suggerisce che, se queste classi di farmaci sono utilizzati all'esordio di malattia possono modificare la storia naturale di malattia con riduzione del rischio di complicanze. Tuttavia, le terapie pi๠recenti sono costose, dotate di un aumentato rischio di infezione e di linfoma, e non efficaci su tutta la popolazione affetta. Pertanto, lo sviluppo e validazione di biomarkers di malattia in grado di distinguere fenotipi ad âaltoâ ed a âbassoâ rischio, appaiono necessari. Non si tratta di una novità ma di un approccio clinico-laboratoristico già utilizzato in altre branche mediche quali l'oncologia. Sarebbe, inoltre, opportuno analizzare popolazioni non caucasiche, giacchਠle varianti geniche afro-americane sono ben diverse da quelle caucasiche. Pertanto possono esser utili in tal senso studio condotti su gruppi familiari e su coorte.
geneticapediatrica.it trimestrale di divulgazione scientifica dell'Euromediterranean Paediatric Foundation Legge 7 marzo 2001, n. 62 - Registro della Stampa Tribunale di Messina n. 3/09 - 11 maggio 2009
Rivista Italiana di Genetica e Immunologia Pediatrica - Italian Journal of Genetic and Pediatric Immunology
Anno III numero 2 - aprile 2011 | direttore scientifico: Carmelo Salpietro - direttore responsabile: Giuseppe Micali
Review
Ossigenoterapia
Rossella Pecoraro, Tiziana Timpanaro, Papale Maria, Francesco Di Mauro1 Dipartimento di Pediatria, Università degli studi di Catania, 1Dipartimento di Pediatria 2 Università Di Napoli
Definizione L'ossigenoterapia consiste nella somministrazione di ossigeno, generalmente miscelato con aria, in circostanze patologiche che impediscono la normale ossigenazione del sangue e dei tessuti. Lo scopo dell'ossigenoterapia ਠquello di evitare l'istaurarsi dell'ipossia, aumentando la concentrazione dell'ossigeno, e quindi la sua tensione parziale negli alveoli polmonari, in modo da favorirne il passaggio dallo spazio alveolare al sangue [1]. Basi di fisiopatologia respiratoria L'insufficienza respiratoria rappresenta la principale causa di ossigenoterapia e si definisce come l'incapacità dei polmoni a soddisfare le esigenze metaboliche dell'organismo. Si verifica per riduzione della capacità del sistema respiratorio a mantenere l'omeostasi degli scambi gassosi ed ਠcaratterizzata dalla presenza di una PaO2 <60 mmHg o di una PaCO2 >50 mmHg [2]. L'alterazione pi๠comunemente riscontrata in corso di insufficienza respiratoria ਠla diminuizione della concentrazione di ossigeno nel sangue arterioso (ipossiemia), cui puಠfar seguito una anomala ossigenazione tissutale (ipossia), associata talvolta ad una ridotta eliminazione di anidride carbonica (ipercapnia). Si distinguono quattro forme di ipossia che sono riassunte nella tabella 1 [1].
Al fine di definire una corretta indicazione all'ossigenoterapia ਠnecessario distinguere l'insufficienza respiratoria in due differenti forme [tabella 2]: ⢠Insufficienza respiratoria di tipo I: definita ipossiemico e normo/ipocapnica. E' relativa a patologie delle vie aeree centrali (croup, corpo estraneo, anafilassi, tracheite/epiglottite batterica, ascesso retrofaringeo) e del parenchima polmonare (asma, bronchiolite, polmonite, edema polmonare, fibrosi cistica, displasia broncopolmonare). E' determinata da alterazioni del rapporto ventilazione/perfusione (V/Q) con persistenza di una buona perfusione in aree del polmone poco ventilate (accesso acuto d'asma, bronchiolite, malattia delle membrane ialine nel neonato) od anche da condizioni che riducono la perfusione polmonare con ventilazione conservata (embolia polmonare, cardiopatia congenita cianotica, scompenso cardiaco). In entrambi i casi l'alterazione del rapporto V/Q comporta il ritorno di sangue non ossigenato al cuore con conseguente ipossiemia. La risposta compensatoria all'ipossiemia ਠrappresentata dall'aumento della frequenza respiratoria con una conseguente maggiore eliminazione di CO2. ⢠Insufficienza respiratoria di tipo II: definita ipossiemico-ipercapnica. E' dovuta ad una condizione di ipoventilazione alveolare con conseguente incapacità del sistema respiratorio ad eliminare CO2 in modo adeguato. Si realizza pi๠frequentemente nelle condizioni che impediscono direttamente la ventilazione, quali: riduzione dell'input a livello del SNC (trauma cranico, emorragia intracranica, apnee della prematurità ) ; alterazioni delle giunzioni neuro-muscolari (danno al midollo spinale, avvelenamento da organofosfati/carbammati, sindrome di Guillain-Barrà¨, miastenia gravis, botulismo) e patologie neuromuscolari (miopatie e distrofie muscolari). Questa forma puಠinstaurarsi insidiosamente per il sopraggiungere della fatica dei muscoli respiratori come complicanza di una patologia preesistente (processo broncopneumonico acuto, stato di male asmatico, bronchiolite grave) esordita inizialmente con ipossiemia senza ipoventilazione. La sola supplementazione di ossigeno in questa forma di insufficienza respiratoria puಠnon essere appropriata. Questo ਠvero soprattutto in quelle condizioni cliniche nelle quali il soggetto si ਠadattato ad una condizione di ipercapnia cronica (come nei bambini con fibrosi cistica) ed ਠrelativamente dipendente dai chemocettori periferici ossigeno-sensibili per mantenere il drive ventilatorio. In questa forma il trattamento con solo ossigeno puಠportare ad una depressione del drive ventilatorio con aumento dei livelli di ipercapnia [1, 2]. L'insufficienza respiratoria in età pediatrica puಠessere inoltre classificata in acuta, cronica e cronica riacutizzata, in base al tempo intercorso tra la presentazione dei sintomi e il suo sviluppo. Nella forma acuta la compromissione della funzione respiratoria ਠspesso di entità grave e avviene in un periodo temporale molto breve (ore o giorni) ; nella forma cronica, invece, insorge lentamente (settimane o mesi) ed ਠdi severità minore per l'istaurarsi dei meccanismi di compenso; mentre la forma cronica riacutizzata rappresenta il deterioramento acuto di un'insufficienza respiratoria cronica [2]. Nella tabella 2 sono riportate le patologie nelle quali viene pi๠frequentemente utilizzata l'ossigenoterapia. L'inizio dell'ossigenoterapia ਠindicato per valori di PaO2 inferiori a 60 mmHg ed una SaO2 inferiore al 90%, e comunque in tutte quelle condizioni cliniche in cui ਠlegittimo sospettare una condizione di ipossia [4, 5, 6]. Quali segni clinici precoci di ipossia si possono considerare i seguenti: ⢠aumento della frequenza respiratoria e cardiaca in relazione all'età ; ⢠utilizzo dei muscoli respiratori accessori; ⢠ridotta tolleranza alla sforzo; ⢠irritabilità ; ⢠riduzione delle capacità mentali; ⢠insorgenza di crisi di apnea e bradicardia (soprattutto nei lattanti). Tra i segni pi๠tardivi si annoverano: ⢠stato confusionale; ⢠alterazioni dello stato di coscienza fino al coma; ⢠aritmie cardiache; ⢠cianosi [1, 7, 8].
La pressione parziale di O2 (PaO2) nei soggetti normali ਠinfluenzata da numerosi fattori, principalmente l'età , l'altitudine e la frazione inspiratoria di ossigeno (FiO2). La relazione esistente tra PaO2 ed Hb viene rappresentata dalla curva di dissociazione dell'Hb (Figura 1). Per le caratterisiche proprie della curva si evince che a valori di PaO2 normali (>90 mmHg) l'Hb ਠsatura al 95% e la curva assume un andamento piatto. Di conseguenza un aumento di PaO2 (per iperventilazione o per somministrazione di ossigeno esogeno) comporterà solo un minimo e poco significativo incremento della concentrazione di ossigeno nel sangue. Al contrario, per valori <60 mmHg, ogni ulteriore caduta della PaO2 produce una variazione molto marcata della SaO2 (sO2 <90%) con evidenti ricadute sull'ossigenazione tessutale (Figura 1) [1, 2].
particolarmente utile nei casi di ipossiemia in presenza di una ventilazione sufficiente, in quanto permette una precisa valutazione della FiO2 ed ਠutile anche in caso di respirazione naso buccale o prevalentemente buccale. Le maschere con reservoir esistono in due varietà : la partial re-breathing mask e la non re-breathing mask. La prima ਠsprovvista di valvole unidirezionali tra maschera e reservoir, motivo per cui una parte dei gas espirati, circa un terzo, entra nel reservoir divenendo parte della successiva respirazione, mentre i restanti due terzi vengono allontanati attraverso apposite aperture nella maschera. Con tali maschere si raggiungono FiO2 di 0, 80. La seconda invece ਠdotata di una valvola unidirezionale tra maschera e reservoir, in modo che il bambino inali solo dal reservoir e possa espirare solo attraverso valvole ad una via poste sul bordo della maschera. Un sistema di valvole di sicurezza permette inoltre all'aria di entrare nel sistema nel caso in cui la sorgente di ossigeno venisse accidentalmente sconnessa. Con tale tipo di maschera sono raggiungibili FiO2 di 0, 95. Le indicazioni maggiori per questo tipo di presidio sono tutte le situazioni acute in cui vi sia la necessità di somministrare ossigeno ad alte concentrazioni e per un breve periodo. Le tende a ossigeno sono sistemi misti che possono usare tanto tecniche ad alto flusso quanto a basso flusso. Si tratta di dispositivi in materiale plastico che avvolgono completamente il letto del paziente (tabella 3). Consentono di controllare la concentrazione di ossigeno, la temperatura e l'umidità all'interno ed hanno il vantaggio, inoltre, di evitare al paziente il fastidio dell'applicazione di cannule, cateteri o maschere. Numerosi, tuttavia, sono gli inconvenienti legati al loro utilizzo, quali la necessità di flussi di ossigeno molto alti (10-15 l/min), la necessità di molto tempo per il raggiungimento di una data FiO2, il calo repentino della FiO2 all'apertura della tenda e la difficoltosa osservazione del paziente da parte del personale medico e dei genitori [1, 74]. Nei trattamenti a lungo termine ਠprevisto l'utilizzo del sistema a basso flusso, in grado di erogare anche quantità di 0, 1 l/min, in considerazione delle esigenze e dell'età del paziente. Le fonti attualmente disponibili per la somministrazione di ossigeno domiciliare sono, attualmente, le bombole ad alta pressione (gassoso), i sistemi ad ossigeno liquido e i concentratori di ossigeno (Tabella 3). La scelta dei diversi sistemi ਠlegata, oltre ai vantaggi e svantaggi, anche all'età del paziente, al livello di autonomia ed al flusso di ossigeno necessario. I dispositivi di erogazione dell'ossigeno comunemente utilizzati sono le cannule nasali, nei bambini con vie respiratorie integre, sostituite dalle maschere facciali nei soggetti con occlusione delle narici e/o che respirano a bocca aperta. Nei bambini tracheostomizzati, invece, la somministrazione di ossigeno attraverso la cannula tracheostomica, qualora ve ne sia precisa indicazione, puಠavvenire attraverso il collegamento mediante specifiche maschere per tracheotomia; tuttavia, essendo questo presidio difficilmente fissabile in un bambino, non consentendo quindi una somministrazione precisa dell'ossigenoterapia, si puಠovviare con l'uso del ânaso artificialeâ che consiste in un filtro umidificatore passivo che prevede una presa per l'ossigeno ed un foro centrale per l'aspirazione, che risulta di fatto, quello di uso pi๠comune, in quanto pi๠pratico ed efficace. Tuttavia, per tale presidio, ਠraccomandato l'uso su pazienti con peso corporeo superiore a 15 Kg. Per i bambini di peso corporeo inferiore non risulta ci siano attualmente strumenti certificati per la somministrazione di O2 domiciliare attraverso la tracheotomia [2, 76].
Durante la ventilazione meccanica, ਠpossibile migliorare l'ossigenazione aumentando la FiO2 o la pressione media delle vie aeree. La ventilazione meccanica viene iniziata per fornire un supporto a polmoni che funzionano normalmente o per malattie che fanno diminuire la compliance (sindrome da distress respiratorio acuto, atelettasia, polmonite, edema polmonare ed emorragia polmonare) o aumentare la resistenza (asma, bronchiolite, displasia broncopolmonare, inalazione di fumo e fibrosi cistica). Le situazioni in cui i polmoni sono normali possono non richiedere supplemento di ossigeno, in caso contrario si inizia con una FiO2 al 100% per poi ridurla al 50%. Le malattie di diminuita compliance, invece, causano una ipossiemia significativa ed ਠconsuetudine iniziare con una FiO2 al 100% per poi ridurla al 60% o meno al fine di evitare la tossicità da ossigeno. Nelle malattie di aumentata resistenza, infine, si inizia con una FiO2 al 100% riducendola lentamente al fine di mantenere un'adeguata ossigenazione ed evitando, al tempo stesso, una tossicità da ossigeno. Gli obiettivi principali della ventilazione meccanica sono: fornire un adeguato scambio di gas e favorire l'eliminazione dell'anidride carbonica senza causare un barotrauma polmonare o una tossicità da ossigeno. L'ECMO (ExtraCorporeal Membrane Oxygenation, ossigenazione di mambrana extracorporea) ਠusata nel trattamento di neonati e lattanti con insufficienza respiratoria refrattaria potenzialmente fatale che non risponde alla ventilazione meccanica e si prevede che si risolva in un breve periodo di tempo. Tuttavia a causa dei suoi rischi (da cateterizzazione vascolare e anticoagulazione) e del fatto che i suoi vantaggi rispetto al trattamento convenzionale nei pazienti non-neonatali non stati dimostrati in modo inequivocabile, le indicazioni per l'ECMO richiedono notevole esperienza, prudenza e giudizio [75, 77]. Bibliografia 1. Niccoli AA, Castellucci G. Insufficienza respiratoria e ossigenoterapia. Broncopneumologia. 2008;5-10. 2. Esposito F, Cavaliere P, Esposito I et al. Ossigenoterapia domiciliare nei bambini con insufficienza respiratoria cronica. Pneumologia Pediatrica 2009; 33: 31-42. 3. Wagstaff AT. Ossigenoterapia. In: Bersten A.D., Soni N. Oh Manuale di Terapia Intensiva. 6 th ed. Elsevier. 2010;319-31. 4. Kallstrom TJ. AARC Clinical Practice Guideline: oxygen therapy for adults in the acute care facility: 2002 revision & update. Respir Care 2002;47:717-20. 5. Duke T, Graham SM, Cherian MN. Oxygen is an essential medicine: a call for international action. 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Rivista Italiana di Genetica e Immunologia Pediatrica - Italian Journal of Genetic and Pediatric Immunology
Anno III numero 2 - aprile 2011 | direttore scientifico: Carmelo Salpietro - direttore responsabile: Giuseppe Micali
Obesità infantile: natura o cultura?
Valeria Chirico, Rosangela Caruso, Carbone Maurizio, Caterina MunafಠDipartimento di Scienze Pediatriche Mediche e Chirugiche, Università di Messina
L'obesità ਠuna malattia complessa dovuta a fattori genetici, ambientali ed individuali con conseguente alterazione del bilancio energetico ed accumulo eccessivo di tessuto adiposo nell'organismo. L'obesità ਠsempre pi๠oggetto di attenzione da parte del mondo medico in quanto la sua progressiva diffusione preoccupa, tanto da essere stata definita dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un' âepidemia globaleâ. I dati forniti dall'ISTAT documentano che in Italia nella fascia di età degli 8 anni il 36% dei bambini ha problemi di eccesso di peso, di cui il 24% ਠin sovrappeso e il 12% ਠdecisamente obeso. Complessivamente ਠsempre il Meridione a presentare prevalenze di obesità e sovrappeso pi๠elevate ma, per la prima volta, si osserva un aumento del tasso di obesità nel Nord-Ovest, area tradizionalmente a pi๠bassa prevalenza, che supera quello del Centro.
Sono stati identificati quattro periodi critici per lo sviluppo dell'obesità : Vita intrauterina : Viene plasmato l'assetto metabolico del feto in relazione a quello della madre. L'esposizione del feto a ipernutrizione durante la gravidanza puಠcontribuire alla âprogrammazioneâdella regolazione metabolica del bambino nella sua vita adulta, predisponendo l'individuo all'obesità e al diabete. Allo stesso modo anche l'esposizione all'iponutrizione intrauterina ਠstata associata ad una pi๠elevata prevalenza dell'obesità nei giovani adulti. Primo anno di vita: L'elevata velocità di crescita ponderale e staturale durante il primo anno di vita, favorita da un grande apporto in calorie e nutrienti, ਠassociata al sovrappeso ed all'obesità nelle età successive. L'allattamento al seno soprattutto se prolungato per pi๠di sei mesi, ਠun fattore protettivo nei confronti dell'obesità Età prescolare: adiposity rebound: Si intende l'inversione della curva dell'adiposità che avviene fisiologicamente al sesto-settimo anno di vita. I bambini che presentano un'anticipazione dell'adiposity rebound hanno un elevato rischio di diventare obesi nelle età successive. Pubertà : In questa fase vi ਠil rischio che la deposizione di lipidi sia eccessiva, in relazione alla riduzione di attività fisica e sportiva, soprattutto nelle femmine, e al generale peggioramento delle abitudini nutrizionali tipiche dell'adolescenza, soprattutto lo snacking fuoripasto.
Le scelte nutrizionali: Tra i diversi aspetti dell'alimentazione si sta cercando di capire quali contribuiscano in modo particolare all'eccesso ponderale. Una dieta ad alto carico glicemico rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di adiposità centrale, cardiovasculopatie e diabete mellito. Gli errori alimentari maggiormente diffusi nei bambini obesi si possono cosଠriassumere: - eccessiva assunzione di cibo rispetto al consumo calorico (vita troppo sedentaria) - mancata assunzione della prima colazione - i bambini obesi che effettuano la prima colazione tendono comunque a mangiare poco al mattino - tendenza ad assumere alimenti preferibilmente nel pomeriggio e alla sera, spesso non in occasione dei pasti principali - scarso apporto di: cereali, legumi, pesce, fibra alimentare, verdura e frutta di stagione - elevato apporto di lipidi: salumi, formaggi e carne, dolci - elevato apporto di zuccheri ad alto indice glicemico (patate, pane, cereali raffinati) - preferenza per i cibi liquidi (per esempio succhi di frutta) - due condotte alimentari sembrano, in particolare, specifiche del bambino e dell'adolescente obeso: l'iperfagia e il piluccamento, spesso a connotazione familiare.
Un'iperalimentazione nei primi due anni di vita oltre a causare un aumento di volume delle cellule adipose (ipertrofia), determina anche un aumento del loro numero (iperplasia) . Numerosi sono gli studi che hanno dimostrato un'associazione positiva tra adiposità e âskipping breakfastâ. Esistono studi che dimostrano come una ricca colazione, sia in bambini normopeso che obesi, abbia un impatto significativo sull'assunzione di alimenti a pranzo riuscendo a ridurre gli eccessi nel pasto successivo. La validità della prima colazione puಠessere, quindi, individuata nella sua capacità di regolare l'assunzione calorica nei pasti successivi e nell'integrazione di alcuni micronutrienti (per esempio ferro e zinco) che altrimenti sono spesso carenti, specie nelle adolescenti. Una recente indagine longitudinale di Berkey ha studiato la frequenza di assunzione del breakfast, l'alimentazione e il BMI in una popolazione di 14 mila ragazzi tra i 9 e i 14 anni. A conferma di altri studi, si rileva che i bambini che saltano la prima colazione hanno una dieta meno salutare, caratterizzata da una maggior quota di lipidi e un pi๠basso intake di vitamine e minerali. I bambini che non mangiano mai la prima colazione sono di peso superiore ai coetanei che invece hanno l'abitudine di assumerla. Negli ultimi decenni si ਠassistito, insieme ad un generale incremento degli apporti in zuccheri a rapido assorbimento nell'alimentazione della popolazione in tutto il mondo, anche ad un progressivo aumento del consumo di bevande zuccherate. Un gruppo di 548 adolescenti ਠstato seguito per un anno e mezzo con frequenti valutazioni antropometriche e degli apporti nutrizionali. In questi ragazzi, il consumo di bevande zuccherate ਠrisultato associato all'incremento dell'adiposità nel corso dello studio. In particolare, per ogni porzione al dଠdi bevanda zuccherata consumata aumentava, dopo aggiustamento per caratteristiche antropometriche e demografiche, variabili nutrizionali e stile di vita, sia il BMI (0.24 kg/m2/porzione/die) al momento del reclutamento, che lâincremento del BMI (0.18 kg/m2/porzione/die) nel corso del follow-up. Inoltre, uno studio osservazionale prospettico ha suggerito che il rischio di sviluppo di obesità aumenta del 60 per cento nei bambini della scuola media per ogni bibita al giorno in pià¹, anche dopo la correzione per eventuali fattori confondenti. Le bibite zuccherate promuovono l'apporto energetico e l'eccessivo aumento ponderale a causa della loro influenza sul metabolismo glucidico. Per contro, il latte e lo yogurt, alimenti a basso indice glicemico, sembrano proteggere gli adolescenti in sovrappeso dal rischio di diventare obesi. Un' indagine mirata ai fuoripasto e condotta su di un campione di 1800 bambini di età compresa tra 7 e gli 11 anni reclutati nell'Italia settentrionale, centrale e meridionale, ha evidenziato un consumo medio di fuoripasto pari a 3 porzioni al giorno. I fuoripasto pi๠consumati, con apporti medi di una porzione al giorno, sono risultati le bevande zuccherate (nell'ordine succhi di frutta, the, bibite gassate) . I due rimanenti fuoripasto giornalieri sono costituiti in primis dal panino imbottito, seguito da crakers, schiacciate e frutta.
Le abitudini motorie: Oltre all'aumentato consumo di cibi ricchi di energia e ricchi di grassi, la generale tendenza alla sedentarietà ha contribuito in modo notevole al vistoso incremento della prevalenza dell'obesità . La riduzione dell'attività fisica quotidiana, causa importante dello sviluppo del sovrappeso, ਠprogressiva con l'aumentare dell'età soprattutto nelle ragazze. Esiste una relazione inversamente proporzionale tra il peso corporeo e le ore dedicate all'attività fisica la quale riveste un ruolo protettivo nei confronti dell'eccessivo incremento di peso anche nell'età infantile. L'esercizio fisico ਠdi fondamentale importanza per il bambino che cresce, in quanto, oltre a farlo dimagrire, lo rende pi๠attivo, contribuendo a ridistribuire le proporzioni tra massa magra (tessuto muscolare) e massa grassa (tessuto adiposo) . Nell'ambito delle attività sedentarie, che occupano sempre maggior spazio nella giornata dei ragazzi, televisione e computer occupano molte ore con effetti importanti: riduzione del metabolismo, visione di pubblicità alimentari, invito a mangiare, sottrazione di tempo ad attività pi๠dispendiose. Le stime pi๠recenti indicano che i bambini necessitano di un minimo di sessanta minuti di attività fisica moderata-vigorosa al giorno.
Lo stile di vita: Le persone che soffrono di insonnia, e che non dormono rispettando le canoniche 8 ore di sonno, tendono a mangiare di pi๠rischiando l'obesità . Il tutto ਠriconducibile all'azione di due ormoni chiave atti alla regolazione dell'appetito: la grelina e la leptina. La grelina aumenta le sensibilità alla fame mentre la leptina tiene sotto controllo l'appetito. Chi dorme regolarmente per cinque ore a notte ha in media il 15% di grelina in pi๠e il 15% di leptina in meno rispetto a chi dorme per otto ore. Si ਠosservato che poche ore di sonno portano a una riduzione dei livelli di leptina ed a pi๠elevati livelli di grelina. Ovviamente lo stimolo della fame generato dalla grelina ha maggiore incidenza sul rischio di obesità .
Le occupazioni durante il tempo libero: à stata pi๠volte sottolineata la correlazione tra le ore trascorse davanti alla televisione ed il grado di sovrappeso, logica conseguenza di uno squilibrio tra introito e dispendio energetico. Vari studi hanno riscontrato una relazione direttamente proporzionale tra le ore trascorse davanti alla televisione e la prevalenza dell'obesità tra i bambini in età scolare. Una recente meta-analisi ha definitivamente confermato l'associazione tra esposizione video e obesità nei bambini già da tempo riportata anche nel nostro paese . Il video, in particolare la TV, ਠun fattore di rischio sia per la sedentarietà che per il consumo di cibo.
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L'aerosolterapia
INTRODUZIONE La terapia inalatoria ha origini antiche, quando all'acqua in ebollizione erano aggiunti principi attivi o presunti tali e successivamente inalati. 1 Il primo sistema per aerosol dell'era moderna fu ideato dal Dr. John Mudge nel 1778 (Figura 1). Da allora la terapia aerosolica ha subito una notevole diffusione non solo nell'età adulta ma anche in quella pediatrica e assunto validità scientifica e terapeutica innegabili per il trattamento di numerose patologie. 2, 3 Oggi sono disponibili una vasta gamma di apparecchi (devices) che amplificano notevolmente le possibilità di scelta, ma creano allo stesso tempo dubbi e incertezze sia tra i pazienti che tra i medici. 4 Diversi studi hanno, infatti, messo in luce l'inadeguata conoscenza da parte del personale medico riguardo l'utilizzo dei devices .5-9 Risulta quindi necessaria una rivoluzione culturale che partendo dai medici porti ad una maggiore consapevolezza e competenza dei pazienti.
Confrontando i nebulizzatori classici, quelli âmiglioratiâ e quelli âattivatiâ dal respiro, questi ultimi due sono risultati superiori. In particolare, i nebulizzatori breath-enhanced hanno ridotto il tempo di trattamento, i breath-actuated hanno ridotto lo spreco di farmaco e incrementato la quota di farmaco inalata. 30, 33 Pi๠recenti sono i âmesh nebulizersâ (Figura 4) aventi come elemento pi๠importante e innovativo una membrana metallica micro perforata attraverso una tecnologia laser.
Figura 4 - esempi di "mesh nebulizers" commercializzati in Italia Un attuatore piezoelettrico, controllato da un circuito elettronico, mette in vibrazione la membrana, creando una differenza di pressione fra la camera contenente il farmaco e il nebulizzatore vero e proprio. Il farmaco allo stato liquido tende a spostarsi verso l'ambiente a pressione minore attraversando i micro fori della membrana e trasformandosi in aerosol, le cui particelle hanno dimensioni determinate dalla sezione dei micro fori stessi (Figura 5). 31
Figura 5 - Principio di funzionamento dei "mesh nebulizers" La tecnologia mesh ha dimostrato in diverse condizioni, sia in adulti che in bambini, di produrre una quantità di aerosol maggiore rispetto ai nebulizzatori tradizionali, in conseguenza della particolare modalità di produzione delle particelle respirabili, della percentuale di dose emessa e del residuo di farmaco rimanente nell'apparecchio. 34 I vantaggi offerti sono molteplici sia in termini di efficacia (basti pensare che le dimensioni delle particelle da inalare sono perfettamente predeterminate, una maggiore quota di farmaco raggiunge le basse vie aeree, con riduzione della deposizione orofaringea e degli effetti collaterali), sia in termini di compliance (portabilità , assenza di rumore, facilità d'uso). I limiti di questi apparecchi sono il costo non indifferente e il fatto che non possono nebulizzare farmaci viscosi. 31, 35 La tabella 1 mette a confronto alcuni dei nebulizzatori attualmente in commercio in Italia. UNO SGUARDO AL FUTURO: I-neb AAD System Nuovi nebulizzatori, definiti âintelligentiâ stanno per arrivare (Figura 6). 36 Essi combinano la tecnologia della membrana forata vibrante con quella AAD (Adaptive Aerosol Delivery).
Figura 6 - Il nuovo Respironics I-neb con tecnologia AAD eroga l'aerosol all'inizio dell'inspirazione Presentano numerosi vantaggi: minore volume residuo del farmaco, maggiore precisione della dose erogata in quanto si adattano al respiro del paziente senza spreco di farmaco durante l'espirazione, maggiore aderenza alla terapia grazie alla presenza di un segnale visivo, sonoro o vibratorio che informa il paziente della corretta e completa esecuzione della manovra. Si tratta di apparecchi silenziosi, portatili e ricaricabili, che consentono, tramite una singola piattaforma, la somministrazione di pi๠farmaci. La novità pi๠sorprendente e rivoluzionaria ਠla presenza di un chip di memoria che registra e trasmette i dati tramite internet ad un computer consentendo al medico di poter esaminare e monitorare in tempo reale la performance del paziente. Tramite questo sistema sono possibili anche la prescrizione e l'ordinazione elettronica del farmaco che verrà spedito a casa dalla farmacia. I primi studi hanno evidenziato il possibile utilizzo di I- neb AAD System per la somministrazione di α1-antitripsina in pazienti con Fibrosi Cistica (FC).36-39 Un altro studio ha testato questo apparecchio proprio su di un gruppo di pazienti con FC, con un evidente risparmio di tempo ed elevati livelli di compliance. 40 Recentemente, questo dispositivo ਠstato introdotto negli Stati Uniti per la somministrazione di iloprost nel trattamento dell'ipertensione polmonare, ma se risulterà realmente efficace la sua applicazione potrebbe estendersi al trattamento di tutte le patologie respiratorie. 36, 37
Tabella 3 Primo parametro da prendere in considerazione ਠl'età del paziente. Le Linee Guida SIP, facendo riferimento alle GINA 2006 (recentemente aggiornate), indicano chiaramente che fino ai 6 anni il dispositivo di prima scelta ਠil pMDI con distanziatore, mentre per i bambini che hanno pi๠di 6 anni gli spray predosati sono equivalenti agli erogatori di polvere. In tutte le età il nebulizzatore viene indicato come dispositivo di seconda scelta (tabella 4). 21, 84
Tabella 5 - Le tecniche inalatorie consigliate92 LE CARICHE ELETTROSTATICHE Quando si usa un distanziatore costruito con un materiale non conduttore, come la plastica, la presenza di cariche elettrostatiche puಠridurre la quantità di farmaco inalata e rendere di volta in volta variabile la dose somministrata. Infatti, parte del medicinale spruzzato nello spacer aderisce alle pareti e diventa indisponibile per l'inalazione. Alcuni dei nuovi distanziatori hanno limitato questo problema, per esempio NebuChamber, Vortex, Fluspacer, OptiChamber e AeroChamber Plus.2, 97 In alternativa ਠpossibile ridurre le cariche elettrostatiche con un'appropriata pulizia immergendo lo spacer in acqua con poche gocce di un detergente ionico (il comune detersivo per lavare i piatti), lasciandolo asciugare da solo, senza strofinarlo con il panno, per 12-24 ore e ripetendo tale procedura una volta a settimana (tabella 6).71, 92, 97
Tabella 7 Istruire il paziente non ਠfacile ma ਠmeglio che cambiare semplicemente il device alla prima difficoltà .4, 22 Tutti i devices richiedono una qualche spiegazione e prescrivere un device al paziente non assicura un suo corretto uso.2 à necessario un nostro cambiamento per essere sicuri che i pazienti effettuino l'aerosol terapia con appropriatezza ed efficacia ed ਠfondamentale far capire l'importanza di una terapia fatta correttamente in primis ai genitori dei nostri piccoli.22, 113 Diversi studi hanno dimostrato le scarse conoscenze teoriche e pratiche di medici, infermieri e specializzandi inerenti l'uso dello spray con il distanziatore. à importante colmare queste gravi lacune perchਠsolo un medico con corrette abilità teorico-pratiche puಠimpartire un efficace insegnamento ai propri pazienti.5-9, 92, 115 Bibliografia 1. Milanesi E, Romei I, Piacentini G. Aerosolterapia delle basse vie aeree: i presupposti fisiopatologici. PneumologiaPediatrica2003; 12: 23-7. 2. Rubin BK. 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